Dopo il suo insediamento alla guida del Governo “semaforo”, Olaf Scholz settimana scorsa si è recato in visita a Parigi, dove ha incontrato Emmanuel Macron. “Abbiamo discusso di come tornare a rendere l’Europa forte”, ha detto il Cancelliere tedesco dopo il colloquio con il Presidente francese.
Il quale, da parte sua, il giorno prima aveva presentato il programma della presidenza Ue che il suo Paese assumerà dal 1° gennaio, evidenziando che occorre liberarsi di vecchi tabù e feticci e definendo “superato” il parametro del deficit/Pil al 3%. Parole importanti in un periodo in cui si dibatte di modifiche al Patto di stabilità e crescita.
Gustavo Piga, professore di Economia politica all’Università Tor Vergata di Roma, ricorda che questa «è una fase al contempo di forza e debolezza per Macron, perché da un lato è un’anatra zoppa, visto che in primavera si terranno le elezioni presidenziali e la sua conferma all’Eliseo non è certa, ma dall’altro ha un vantaggio come “veterano” europeo, e lo si è visto bene nella conferenza stampa con Scholz: era chiaramente più sicuro di sé rispetto al neo cancelliere tedesco che per certi versi è un “novizio”. È quindi un periodo interessante, e anche incerto, per l’Europa, nel quale all’orizzonte pare esserci una sorta di negoziato».
Un negoziato di che tipo?
Il giorno prima di incontrare Scholz, Macron ha parlato chiaramente della necessità di nuove regole europee semplici e trasparenti, facendo anche riferimento a una sorta di golden rule per gli investimenti da non conteggiare nel deficit. Di fronte al Cancelliere tedesco, però, ha parlato anche di nuova flessibilità. Sappiamo, tuttavia, che prima del Covid la flessibilità è stata usata in maniera poco efficace ed è comunque una cosa ben diversa da nuove regole che possono smantellare un’architettura sadomasochistica. Avremo quindi un negoziato che ruoterà intorno a una tenue maggior flessibilità voluta dai tedeschi e dalle nuove regole chieste dai francesi.
Dobbiamo quindi sperare che abbiano la meglio le tesi francesi.
Sì, anche se va detto che tra gli obiettivi che Macron ha citato c’è anche la “convergenza”, una parola chiave per i tedeschi che può far riferimento alla convergenza dei conti pubblici. Se quindi vengono introdotte nuove regole, ma al contempo viene nuovamente chiesto, come attualmente avviene con il Fiscal compact, di portare in breve tempo deficit o debito verso determinati valori, allora ciò non consentirà all’Italia, e quindi all’Europa, di uscire dalla crisi. Non basta un piccolo passo avanti: l’Europa ha bisogno di giganteschi passi avanti.
Di che genere?
Basta guardare agli Stati Uniti: il confronto è veramente impietoso in termini di differenza di crescita nell’ultimo ventennio, di attenzione all’occupazione delle fasce più deboli e di conseguenza alla stabilità politica. Il deficit Usa viaggia intorno al 10% del Pil, mentre l’Eurozona guarda sempre al 3%. E si vede. Questo rimane il tallone d’Achille del nostro continente, come pure la situazione dell’Italia, di cui però occorre tenere conto. Al nostro Paese, infatti, si continua a proporre come soluzione il Fiscal compact, ancora abbondantemente presente all’interno della politica fiscale italiana. Il Fiscal compact non è assolutamente morto e Macron e Scholz non possono fingere di non saperlo quando parlano della flessibilità che c’è già stata in Europa.
Cosa intende dire?
Che è vero che con lo scoppio della pandemia c’è stata vera flessibilità, ma comunque all’interno di una strategia in cui è stato trasmesso il messaggio che una volta passato il Covid si sarebbe tornati alla situazione di prima. E questo è disastroso per le aspettative degli operatori. Non mi aspetto, quindi, grandi cambiamenti e non aiuta il fatto che Scholz abbia deciso di affidare il ministero delle Finanze al liberale Lidner. Fa anche impressione che il futuro dell’Europa sia gestito a un tavolo cui siedono solamente due attori: dov’è l’Italia?
Colpisce in effetti il silenzio istituzionale dell’Italia, a parte dichiarazioni generiche, sul futuro delle regole europee.
Assolutamente, come se qualcun altro dovesse decidere per noi, come se fossimo cittadini di serie B. Certo, anche noi ci mettiamo del nostro perché adesso tutta l’attenzione è rivolta all’elezione del capo dello Stato, ma sinceramente credo che se anche fossimo stati in un momento diverso, questo nostro complesso di inferiorità, questo sentirci meno bravi degli altri, mentre semplicemente ci mancano gli strumenti per essere bravi come gli altri, visto che ci vengono costantemente tolti, sia qualcosa di endemico purtroppo. Se all’inizio del secolo nell’Eurozona quasi un euro su cinque veniva prodotto dall’Italia, adesso stiamo arrivando a un euro su sette. È sconcertante che nessuno si renda conto che questo declino che pare inarrestabile è dovuto anche all’aver governato per vent’anni questo Paese con le politiche economiche sbagliate.
L’esito del tavolo a due sembra poter dipendere molto dal risultato delle presidenziali francesi. È così?
Detto che non credo che i sovranisti possano vincere in Francia, anche se il fatto che siamo qui per l’ennesima volta a preoccuparcene non è indicativo di un’unione monetaria forte, ma anzi segnaletico che qualcosa di profondo non va, penso che nel DNA dei francesi ci sia la presenza dello Stato nell’economia, che può essere importante per affrontare quelle che Macron ha indicato come le sfide principali del XXI secolo: quelle geopolitiche, ambientali e digitali. Abbiamo di fronte dei cambiamenti importanti che vanno gestiti con un’enorme presenza del settore pubblico e meritano di essere finanziati anche in deficit visto che anche le future generazioni ne trarranno beneficio. Questa impostazione, anche se vincesse un candidato moderato diverso dall’attuale Presidente, credo rimarrà.
Cosa pensa che farà invece la Bce? Non è chiaro cosa accadrà dopo la fine del programma Pepp e incombe la minaccia dell’inflazione…
La Bce tende a sminuire questa minaccia nel medio periodo, indicando il rialzo inflattivo come temporaneo. Io credo che sia un motivo per sospingere l’inflazione più in alto di quanto non sia adesso e per accettarla come qualcosa di positivo. Se infatti ci chiedessimo come mai, a parità di fattori globali, gli Usa hanno un’inflazione molto più alta della nostra, a livelli che non si vedevano da 40 anni, la risposta sarebbe chiarissima: la differenza sta tutta nella politica fiscale. Il ragionamento dell’Amministrazione Biden è piuttosto lineare: c’è un nemico della democrazia da sconfiggere, Trump, il quale si nutre di disoccupazione e disagio sociale; occorre, quindi, utilizzare la politica fiscale espansiva, malgrado i suoi effetti sui prezzi, per scacciare il demone che minaccia la democrazia.
Tutto questo cosa c’entra con l’Europa?
C’entra tantissimo, perché il ragionamento su questa sponda dell’Atlantico dovrebbe essere identico: sospingere la domanda per abbattere il mostro del sovranismo dovrebbe essere la preoccupazione principale di un’Europa democraticamente molto più debole degli Usa. Sarebbe quindi molto importante portare il deficit/Pil europeo al 10% come quello americano, facendo salire anche in parte l’inflazione, che è un costo, a fronte di un beneficio immenso: scacciare il demone del sovranismo, che invece viene tenuto in vita dall’incertezza. Biden ha capito che il gioco vale la candela, noi no e mettiamo ancora a rischio il progetto europeo.
L’Italia deve quindi muoversi in questa direzione?
Sì, dimenticandosi della solidarietà europea: non ce la daranno mai, perché non siamo fratelli, tutt’al più siamo cugini di terzo grado. Ciò che dobbiamo chiedere, vista l’impossibilità di creare un budget europeo centralizzato nel breve periodo e data la gravità della situazione, è autonomia sul bilancio: lasciare fare agli italiani quello che ritengono utile per loro, con oneri e onori, nel senso che il nostro Paese dovrà poi, esattamente com’era nel disegno iniziale dell’Europa dell’euro, convincere i mercati che metterà a buon uso le risorse rese disponibili. Il che porta anche a un vantaggio addizionale.
Quale?
In Italia si parla male dell’Europa, ma sappiamo bene che tantissima della nostra performance economica disastrosa dell’ultimo ventennio è dovuta alla mancanza della madre di tutte le riforme, che nemmeno con il Pnrr viene colmata: la spending review e la qualità della spesa. Occorre aumentare il deficit e utilizzare queste risorse per investimenti fatti bene in modo da riuscire anche, come ha ricordato la Banca d’Italia, ad abbattere il rapporto debito/Pil. Convincere i mercati della bontà di questa strategia sarà uno stimolo a usare la leva fiscale meglio di quanto non si faccia ora con il Recovery plan, perché va ricordato che ci siamo impegnati a portare il deficit/Pil al 5,6% nel 2022 e al 3,3% nel 2024. Il che significa che non abbiamo capito di cos’ha bisogno il nostro Paese che casca a pezzi per potersi riprendere.
(Lorenzo Torrisi)
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