È iniziato il semestre di presidenza francese degli organi dell’Unione europea. A metà circa del semestre (10 e, per il ballottaggio, 24 aprile) ci saranno elezioni in Francia. Sotto il profilo strettamente statistico, nella quinta Repubblica solo Charles de Gaulle e Jacques Chirac hanno avuto più di un mandato; allora erano sorretti da partiti strutturati e forti. Ora il sistema di partiti e movimenti politici in Francia è frantumato come in Italia, se non di più. Quindi, è difficile fare previsioni, ma non ci si dovrà sorprendere se a metà del cosiddetto “semestre europeo” la Francia cambierà guida. Naturalmente, il programma per il semestre di Macron si basea sull’assunto di permanenza all’Eliseo dell’attuale inquilino.
Il “semestre europeo” a guida francese si interseca con il negoziato per rivedere, nell’unione monetaria, il metodo di vigilanza sulla politica di bilancio e la finanza pubblica: i criteri meglio conosciuti come “i parametri di Maastricht” (ventun anni fa definiti come debito della Pubblica amministrazione che non ecceda il 60% del Pil e indebitamento annuale della Pubblica amministrazione che non ecceda il 3% del Pil). Non tutti gli Stati dell’eurozona ritengono che si debba modificare il Trattato di Maastricht. Tuttavia, a ragione dell’indebitamento causato dal Covid per aumentare sia le spese sanitarie, sia le forme di ristoro, sia gli stimoli all’economia, in media il debito delle pubbliche amministrazioni è pari al 100% del Pil (era il 60% del Pil nel 1990 e su questa media venne basato il Trattato). Un parere giuridico del Prof. Gian Luigi Tosato pubblicato sul N. 1/2022 di Astrid Rassegna indica le condizioni per modificare il parametro senza ricorrere a una modifica formale del Trattato e relativa ratifica da parte dei 19 Parlamenti degli Stati dell’Eurozona.
Il nodo principale è il debito della Pubblica amministrazione. I rapporti più elevati tra debito e Pil sono in Grecia (209,3%), Italia (160%), Portogallo (137,2%), Cipro (125,7%), Spagna (125,2%), Belgio (118,6%) e Francia (118,0%) e il più basso in Estonia (18,5%), Bulgaria (25,1%) e Lussemburgo (28,1%). Rispetto al quarto trimestre del 2020, 23 Stati membri hanno registrato un aumento del loro rapporto debito pubblico/Pil, altri due hanno mostrato una diminuzione, mentre è rimasto invariato in Slovacchia e Bulgaria.
È un nodo che in qualche modo si deve sciogliere perché altrimenti ci penseranno i mercati, causando fibrillazioni anche forti nell’area dell’euro, fibrillazioni che si toccheranno con mano tramite gli spread.
Nei giorni scorsi si è parlato di una proposta franco-italiana per il debito, prendendo spunto da un lavoro scritto da ricercatori della Luiss e dell’Università di Chicago, e curiosamente finito sul sito istituzionale di palazzo Chigi. È una proposta sballata concettualmente e comunque non praticabile – come ho dimostrato altrove. Non credo che Francia e Italia la presenteranno al resto dell’Eurozona.
Ci sono schemi più interessanti. Ad esempio, e restando in ambito italiano (anche in quanto dopo la Grecia, l’Italia è nella situazione più grave e, quindi, uno degli Stati più interessati alla soluzione del problema), quello formulato dall’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica in cui si propone o di definire un nuovo parametro (80-100 % del Pil), da rivedere ogni cinque anni alla luce dell’evoluzione effettiva, oppure di definire parametri differenti per ciascuno Stato, sulla base della provata capacità di crescita (e di riduzione quindi del peso del debito), nonché di un piano quadriennale di riassetto strutturale. Dal computo, verrebbero poi scorporati gli acquisti di titoli fatti dalla Banca centrale europea in base al Pandemic emergency purchase program (Pepp).
Altra proposta degna di merito è quella formulata dal Centro Studi Economia Reale. Dal computo dell’indebitamento verrebbero escluse le spese per investimenti e nei bilanci pubblici va sostituito il parametro dell'”avanzo primario” (privo di basi teoriche ed empiriche) con quello dell'”avanzo di parte corrente” (risparmio pubblico) e per ogni 1% di “avanzo corrente” (autofinanziamento) si può permettere il 2% di investimenti pubblici in più, in parte finanziati in deficit. Si tratta di introdurre una Platinum rule ancor più efficace e rigorosa della Golden rule che indicava di lasciare gli investimenti pubblici fuori dal conto del deficit, trascurando la parte corrente del bilancio. La Platinum rule non sarebbe altro che l’inserimento di una solida leva finanziaria nelle decisioni di politica di bilancio pubblico. Sarebbe come per le famiglie quando decidono di comprare una casa pagando un anticipo del 30% del costo e accendendo un mutuo per il 70%. In sintesi, uno Stato virtuoso e rigoroso avrebbe il 3% di deficit tutto dovuto a investimenti e, qualora presenti un avanzo corrente dell’1% del Pil, potrebbe aggiungere un altro 2% di investimenti. Totale: 5% di Pil di investimenti pubblici, con un deficit totale pari a “solo” il 4% del Pil perché autofinanziato con l’1% di avanzo corrente. Il debito sarebbe sostenibile perché il rapporto debito/Pil sarebbe in continua riduzione dovuta a un sostenuto tasso di crescita che fa aumentare il denominatore (Pil) di più rispetto al numeratore (debito).
Non sappiamo se e quanto l’attuale presidente del Consiglio italiano, Prof. Mario Draghi, sarà coinvolto nel negoziato dato che pare abbia altre mire (che potrebbero realizzarsi). O lui o altri potrebbero prendere queste idee e portarle al tavolo di una trattativa che senza dubbio inizierà in primavera.
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