La scorsa settimana, nella notte tra venerdì e sabato, dopo una lunga trattativa, i negoziatori di Parlamento e Consiglio europeo hanno raggiunto un accordo sul nuovo Patto di stabilità, che dovrà essere ratificato da entrambi gli organismi entro aprile, ultimo termine utile prima delle elezioni europee, se si vorrà far sì che l’entrata in vigore delle nuove regole non slitti al 2025.



Quanto ai contenuti dell’accordo, non ci sono state grosse variazioni rispetto al compromesso trovato alla fine del 2023 tra i ministri delle Finanze Ue: c’è qualche margine in più per lo scomputo delle spese per sussidi di disoccupazione e cofinanziamenti dei programmi europei e la possibilità di deroghe dal percorso di riduzione del debito pubblico in caso di circostanze eccezionali. Secondo Gustavo Piga, professore di Economia politica all’Università di Roma Tor Vergata, è bene guardare anche al contesto in cui questo accordo è stato raggiunto: «Quando si fa una scelta, infatti, bisogna tenere conto del contesto in cui la si fa. Volendo sintetizzare, direi che se è vero che i due probabili sfidanti alle presidenziali statunitensi sono vecchi, allora la politica dell’Unione europea è ancora più vecchia. E questo per tre ordini di motivi».



Quali?

Il primo è che si tratta della stessa identica politica di 15 anni fa, mentre nel frattempo il mondo è cambiato profondamente insieme alle sfide che ci propone. Il secondo è che anche il futuro, come hanno lasciato intravvedere le parole di Trump nel fine settimana sui Paesi che meritano o meno di essere difesi dagli Stati Uniti, potrebbe cambiare ulteriormente in maniera drammatica. Il terzo è un motivo strutturale: il pensiero che i ricchi e i più abbienti in Europa, non solo gli individui, ma anche i Paesi, si possano proteggere con l’austerità a danno dei poveri, alla fine porterà a rivoluzioni violente. Lo hanno capito anche gli Stati Uniti, che non a caso attuano politiche fiscali completamente diverse da quelle che l’Europa intende implementare.



È per questo che poi i risultati in termini di Pil sono così diversi tra le due sponde dell’Atlantico?

Nel quinquennio 2020-24 l’economia americana crescerà del 9,2%, quella dell’Eurozona si fermerà al 4,4%, meno della metà, con l’Italia che raggiungerà il 4,6% nonostante il contributo del Pnrr. Gli americani hanno ben chiaro quanto sia importante per l’efficacia delle politiche fiscali il gioco delle aspettative: imprese e famiglie devono prendere decisioni sugli investimenti guardando a quale sarà la stance fiscale dei prossimi anni. E se gli Stati Uniti terranno il deficit/Pil intorno al 6%, le nuove regole europee lo vogliono contenere sotto l’1,5%.

Può spiegarci meglio quello che ha detto poco fa circa la volontà dei Paesi più abbienti di proteggersi tramite l’austerità?

C’è una parte di Europa che pensa di preservare il proprio standard di vita a discapito degli altri, di chi è più in difficoltà, dato che a causa delle politiche sbagliate che vengono portate avanti la torta da suddividere non cresce di dimensioni, ma sembra, anzi, rimpicciolirsi. Si spiega anche così tutta l’urgenza di raggiungere l’accordo sul nuovo Patto di stabilità prima delle elezioni europee. Le unioni non si possono, però, reggere sull’oppressione dei più deboli, perché alla fine questi reagiranno. Il fatto che negli Usa Biden, nonostante la crescita del Pil, non riesca a essere certo della riconferma alla Casa Bianca la dice lunga su quanto in questo momento contino le disuguaglianze.

Nel Parlamento europeo sono rappresentati anche i Paesi più deboli e indebitati, eppure alla fine l’impianto austero del nuovo Patto di stabilità è rimasto immutato. Come mai?

Il Parlamento europeo si era distinto in passato per la sua critica al Fiscal compact, ma oggi, in maniera miope, i suoi membri che rischiano di non essere rieletti abbassano la testa in nome di un progetto che non porterà che a un disastroso esito. I partiti conservatori attualmente in maggioranza cercano di tutelarsi in caso di sconfitta, ma la sconfitta è inevitabile e verrà nei prossimi 5-10 anni, perché sarà difficilissimo cambiare la costruzione che si sta varando in un prossimo futuro. Le imprese europee, come dimostrato anche dal blocco del Supply Chain Act, la Direttiva Ue sui fornitori, stanno affrontando un momento drammaticamente difficile, ma la risposta che si offre loro e ai cittadini è quella di non pensare a un progetto comune. È un momento drammatico, rischiamo tantissimo e occorrerebbe quanto meno una politica fiscale espansiva per tutto il tempo necessario a mettere in sicurezza la casa comune europea.

Non pensa che potrà esserci un piccolo sussulto, da parte del Parlamento europeo o di qualche Paese membro, che possa far saltare l’approvazione dell’accordo sul nuovo Patto di stabilità entro aprile?

Le cose cambiano se c’è un leader, ma in questo momento non lo si vede. Mi sembra invece ci sia stata una fortissima pressione a portare a casa questo risultato disastroso, per cui forse non si tratta nemmeno di sadomasochismo, ma di una razionalissima lotta per la conservazione del potere e dei patrimoni per il tramite dell’austerità.

Non crede sia possibile un cambiamento nemmeno dopo le elezioni europee?

Le elezioni europee riusciranno forse a erodere un po’ questa composizione, ma non credo abbastanza. Sarà piuttosto la possibile vittoria di Trump alle presidenziali a poter generare dei sussulti positivi o ulteriormente negativi all’interno dell’Europa.

Intanto all’Italia, già da quest’anno, toccherà proseguire il percorso di riduzione di deficit e debito su Pil nel solco tracciato dalle ultime Leggi di bilancio, forse in maniera ancora più stringente…

Ci troviamo con un pistola puntata alla testa e con il nostro dito pronto a far partire il colpo. È una follia quello che sta per avvenire ed è clamoroso che avvenga sotto un Governo che per una larga maggioranza della sua coalizione aveva sempre criticato questo tipo di politiche. Direi che il rischio che si accenda una crisi europea nei prossimi 5 anni partendo dal nostro Paese è sempre più alto.

(Lorenzo Torrisi)

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