Al Consiglio europeo della scorsa settimana non si è parlato solo di Ucraina, energia, politica industriale e migranti, ma sono state anche approvate le conclusioni dell’Ecofin del 14 marzo 2023 “sul riesame della governance economica”.
Un altro passo in avanti verso la riforma del Patto di stabilità e crescita è stato, quindi, compiuto e, secondo Gustavo Piga, Professore di Economia politica all’Università Tor Vergata di Roma, rispetto al recente passato c’è un’importante novità: «Questa volta la Commissione europea ha dovuto incassare una sconfitta, anche se la guerra istituzionale all’interno dell’Ue sulla politica economica e fiscale non è certo finita».
Ci spieghi meglio in cosa consiste la sconfitta della Commissione.
È fallito un tentativo di commissariamento della politica e della democrazia europea. Se ricorda, in una precedente intervista, commentando le linee guida fiscali per il 2024, avevo messo in luce come la Commissione chiedesse di fatto pieni poteri sul futuro della politica fiscale: un organo tecnocratico si spingeva a distinguere tra Stati membri di serie A e di serie B, in base all’esistenza o meno di problema di debito o persino di un alto rapporto di debito, parlava di introdurre sanzioni alla reputazione di uno Stato sovrano e chiedeva al Consiglio europeo di adottare le sue proposte in attesa di una decisione sulla riforma del Patto di stabilità e crescita. Adesso è successo che la politica ha avuto un vagito di orgoglio, grazie in particolare alla Germania.
A che cosa si riferisce?
Il ministro della Finanze Lindner, immagino in pieno coordinamento con il Cancelliere Scholz, ha di fatto costretto l’Ecofin a un negoziato notturno proprio per la volontà espressa dalla Commissione nelle linee guida fiscali per il 2024 di voler precedere la discussione e l’approvazione della riforma del Patto di stabilità e crescita. La Germania è, quindi, riuscita a far inserire nelle conclusioni un punto in cui si “invita la Commissione, prima di pubblicare le sue proposte legislative, a tenere conto delle opinioni convergenti degli Stati membri”. Credo che sia una frase di una potenza estrema, che dichiara la sconfitta della Commissione. Come dicevo poc’anzi, però, non si può cantar vittoria. Anzi, quanto accaduto la dice lunga sulla debolezza potenziale della politica e sulla forza della tecnocrazia.
Di fatto è stata vinta una battaglia, ma la guerra è ancora lunga…
Se siamo dovuti arrivare a una dichiarazione di questo tenore vuol dire che c’è una guerra in corso che va combattuta e anche l’Italia deve fare la sua parte. In questo senso spero che si continui a resistere alle pressioni crescenti sul Mes e anche che, nonostante la recente presa di posizione della Germania, si contrasti la visione tedesca che resta basata su un sospetto originario riguardante alcuni Paesi, tra cui l’Italia, cui non si permette di attuare le politiche fiscali appropriate rendendoli inevitabilmente più rischiosi, perché più poveri e meno capaci di rialzarsi, mettendo così a repentaglio l’intera costruzione europea.
Nel punto delle conclusioni dell’Ecofin che citava prima si parla di opinioni convergenti degli Stati membri. Non è scontato che ci si arrivi.
Assolutamente, ma resta una frase importante. Credo sia giusto che si parli di convergenza, perché non è solo la Germania che deve concedere all’Italia autonomia, ma anche l’Italia che deve dimostrare di meritarsela spendendo bene. A me pare che anche l’attuale Governo non comprenda fino in fondo quanto cambierebbe la narrativa europea se il nostro Paese credibilmente adottasse una politica di riqualificazione complessiva della spesa pubblica: allora sì che potremmo chiedere con forza di poter spendere di più nei momenti di difficoltà.
Resta il fatto che se si chiede di tener conto delle opinioni convergenti, ma queste sono difficili da raggiungere, la Commissione tornerà presto in vantaggio nello scontro in atto.
Siamo in un momento di stasi, è stata bloccata una proposta quasi di “golpe” della Commissione europea, ma non si sa ancora quale sarà il compromesso finale. Credo che occorra prestare grande attenzione al fatto che la proposta della Commissione, così come rifiutata da Ecofin e Consiglio europeo, rappresenta un progetto ideologico molto chiaro con una politica fiscale che non prevede in alcun caso la possibilità di andare in aiuto dei Paesi membri; anzi, questi vengono penalizzati formalmente in caso di allontanamento dal cammino di austerità prefissato.
Nelle conclusioni dell’Ecofin si evidenzia la necessità di ulteriori discussioni su alcune questioni, tra cui quella riguardante la definizione della traiettoria tecnica di bilancio della Commissione, che rappresenterebbe di fatto il cammino che ogni Paese membro dovrebbe seguire per “portare il debito su un percorso sufficientemente discendente o per mantenerlo a livelli prudenti”. Forse è su questo punto che la politica rischia di essere scavalcata dalla tecnocrazia?
La definizione di questa traiettoria rischia di essere estremamente complessa e quando c’è complessità a livello tecnico si crea immensa discrezionalità politica. I Governi sono ben consci che la Commissione con la sua proposta tecnica si sta creando uno spazio che da operativo diventa politico: Bruxelles avrebbe in mano una serie di numeri che può interpretare a suo piacimento e diventerebbe estremamente difficile per gli Stati membri poter replicare. Sono stati molti criticati i parametri del 3% del 60% e anch’io ritengo che abbiano portato l’Ue a focalizzarsi su cifre e procedure anziché su ambizioni, solidarietà, fratellanza e progresso; tuttavia, avevano il merito di essere indicatori semplici che rendevano le politiche più trasparenti e non fornivano ulteriori armi ai tecnici, che a mio avviso sono tra i principali nemici di un progetto europeo solido capace di camminare sulle proprie gambe.
L’Ecofin ribadisce che i percorsi di aggiustamento dei bilanci nazionali avranno come unico indicatore operativo la spesa primaria netta. Conferma le perplessità già espresse su questa scelta?
Sì, perché nella proposta della Commissione in questa voce vengono compresi anche gli investimenti pubblici, che sappiamo essere la parte più fragile della spesa, perché meno rappresentata in quanto riguarda i giovani e le generazioni future che non hanno una lobby che possa tutelarli. Quando, quindi, sarà il momento di tagliare, gli interessi costituiti, come già accaduto, sceglieranno di “sacrificare” gli investimenti pubblici.
Con quali effetti?
A differenza di quanto accaduto in altri Paesi europei, come Germania, Francia e Spagna, in Italia dal 1990 i salari reali medi pro capite hanno seguito una traiettoria stagnante che si è rafforzata terribilmente con un declino dopo il 2011-12, quando è stata approvata la costituzione fiscale che non consente agli Stati di investire nei momenti di difficoltà. Se non ci sono investimenti pubblici, la produttività crolla, come pure i salari reali. È come se nel nostro Paese ci trovassimo in un circolo vizioso per cui qualunque Governo sia in carica non si riesce a mettere in atto una politica economica che guardi al benessere delle persone, fallendo così anche l’obiettivo di non far salire il livello del debito pubblico come chiede l’Europa.
Nelle conclusioni dell’Ecofin si parla di una clausola di salvaguardia specifica per Paese che dovrebbe consentire deviazioni temporanee dal percorso di aggiustamento di bilancio in caso di circostanze eccezionali al di fuori del controllo del Governo con un forte impatto sulle finanze pubbliche. Non è una novità positiva?
Il diavolo si nasconde nei dettagli e credo che sottoporre la flessibilità necessaria ad affrontare una crisi a circostanze da comprovare sia impensabile, non solo perché ci si potrebbe trovare di fronte a una risposta negativa sulla possibilità di attivare tale clausola di salvaguardia, ma anche perché i tavoli negoziali non consentono di garantire una risposta rapida che è fondamentale in caso di crisi. Questo impianto, quindi, mette a rischio il futuro dell’Ue, perché non prevede espressamente la possibilità per i Governi di avere autonomia nel convincere i mercati della bontà dei propri progetti con cui fare i deficit ritenuti opportuni per prevenire una crisi economica e salvarsi da soli da essa. Non stiamo parlando di qualcosa di inedito, ma di quello che accadeva negli Stati Uniti nel XVIII e XIX secolo, quando non c’era una politica fiscale a Washington, come del resto oggi non c’è a Bruxelles.
(Lorenzo Torrisi)
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