Ha preso il via il semestre di presidenza francese dell’Ue e pochi giorni prima di Natale, tramite una lettera al Financial Times, Emmanuel Macron e Mario Draghi hanno avanzato una proposta riguardante un tema di cui si dibatterà molto quest’anno: la riforma delle regole del Patto di stabilità e crescita.



Una proposta, spiega Gustavo Piga, professore di Economia politica all’Università Tor Vergata di Roma, «che avrebbe avuto certamente un peso diverso se fosse stata sottoscritta dai leader dei quattro Paesi che generano quasi i tre quarti della ricchezza dell’Ue (Germania, Francia, Italia e Spagna) e non solo da due di essi».



Certamente non sarebbe stato semplice arrivare a un accordo a quattro. Al di là di questo, perché Draghi e Macron hanno deciso comunque di presentare questa proposta insieme?

È probabile che abbiano percepito un’opportunità tattica dato che si è da poco insediato un nuovo Cancelliere tedesco con minor esperienza tecnica e politica rispetto a loro. Draghi e Macron potrebbero quindi avere visto un pertugio per diventare quelli che in linguaggio negoziale vengono chiamati agenda-setter, ovvero dei creatori di ordini del giorno. Può darsi che questa mossa abbia un suo perché, ma sarebbe interessante chiedere ai tedeschi se renderà più semplice o al contrario complicherà il dialogo sul futuro delle regole di bilancio. Rallegriamoci, però, e complimentiamoci con il Presidente francese e il Premier italiano per la forza trainante di una vera riforma che l’articolo stesso contiene.



Il contenuto della lettera è così importante?

Sì, perché parte da una premessa fondamentale: il fallimento totale delle regole che ci siamo dati nel generare quella che loro chiamano un’Europa forte, sostenibile e giusta. Su questi tre fronti le regole hanno fallito miseramente, rendendo il progetto europeo politicamente più fragile, economicamente più debole e socialmente molto più instabile. Trovo che questo riconoscimento da parte di Draghi e Macron sia condizione necessaria per poter avviare un dibattito sensato per la sopravvivenza dell’unione politica europea. Inoltre, i leader di Italia e Francia pongono un’enfasi chiarissima sulla necessità che le nuove regole portino giovamento alle generazioni future attraverso gli investimenti pubblici. E a questo proposito è espressa anche l’intenzione di estendere il concetto stesso di investimento pubblico, comprendendo non solo le spese in conto capitale, ma anche alcune spese correnti.

Può farci un esempio di queste spese correnti che verrebbero considerate investimenti pubblici a favore delle generazioni future?

Basta pensare agli stipendi di professori e insegnanti che formano i nostri giovani. Sono spese correnti che se, ben utilizzate, rappresentano investimenti in capitale umano. Nella lettera di Draghi e Macron troviamo quindi qualcosa di meno limitante rispetto alla semplice golden rule per scorporare gli investimenti pubblici dal deficit.

Sul sito del Governo, allegato al testo della lettera, vi è un documento di Giavazzi, Guerrieri, Lorenzoni e Weymuller che contiene una proposta tecnica. Cosa ne pensa?

Se dovessimo chiederci come ci pone ai blocchi di partenza nella competizione globale, questo documento ci fa partire con almeno 2 km di ritardo in una maratona rispetto agli altri partecipanti. Usa, Russia, Cina, Giappone, India non hanno mai immaginato regole così astruse e sadomasochistiche come il Fiscal compact…

Cosa c’entra il Fiscal compact?

La proposta contenuta nel documento non fa altro che replicare sotto una veste diverso la sostanza del Fiscal compact. Il diavolo è nei dettagli e in questo caso non può sfuggire come i quattro autori si affrettino a rassicurare qualche probabile leader di un Paese frugale che con la riforma delle regole da loro proposta ci sarebbe una differenza rispetto agli attuali piani di bilancio – fortemente influenzati dal Fiscal compact, visto che, per l’Italia si prevede di passare dal 9,4% di deficit/Pil del 2021 al 3,3% del 2024 – inferiore allo 0,3% di Pil sia nel 2023 che nel 2024. Stiamo parlando quindi di 5-6 miliardi di euro, bruscolini rispetto alla parola chiave del testo di Draghi e Macron, l’ambizione di una nuova Europa. Non è quindi un documento “alla Biden” che perora la politica fiscale espansiva a supporto dell’economia, ma propone semplicemente un po’ meno austerità rispetto alla situazione attuale.

Viene però prevista una premialità per gli investimenti pubblici: più se ne fanno, minore sarà la velocità di riduzione del debito/Pil richiesta.

Guardi, in realtà, facendo due conti coi numeri forniti dagli autori stessi, si scopre che semmai l’Italia dovesse dedicare l’1% di Pil, circa 20 miliardi di euro, a queste spese per il futuro, il premio che avrebbe sarebbe pari allo 0,03% di Pil, circa 600 milioni di euro, di minor rientro del debito da effettuare. Altro che premio, quindi, semmai siamo di fronte a una minor punizione. E c’è di più: la regola proposta prevede che se un Paese dovesse avere un momento di difficoltà economica, per mantenere la riduzione di debito prevista dovrebbe aumentare il proprio avanzo primario. In questo modo si alimenta il circolo vizioso crisi-austerità-ulteriore crisi-maggiore insostenibilità del rapporto debito/Pil: una costruzione identica al Fiscal compact.

Se è così c’è da chiedersi perché tale proposta sia stata allegata alla lettera di Draghi e Macron che sembra avere obiettivi di riforma molto più ambiziosi.

In effetti, quella non è una proposta che aiuta a raggiungere gli obiettivi che Draghi e Macron si sono giustamente dati nella loro lettera. C’è da chiedersi se il documento allegato sia stato letto nella sua interezza dai due politici, ma dobbiamo supporre che la risposta sia affermativa. Possiamo quindi immaginare che ci sia una voglia di cambiamento, ma al contempo di fornire rassicurazioni ai partner frugali sul fatto di non voler compiere fughe in avanti. A questo punto, però, meglio sarebbe stato lavorare a un documento firmato da tutti i Paesi europei, compreso il principale rappresentante dei frugali, cioè la Germania, possibilmente meno ambizioso a parole, ma più capace nei fatti di venire incontro alle esigenze europee. Una cosa comunque è certa.

Quale?

Stiamo giocando col fuoco. Le politiche fiscali austere hanno avuto nel passato la capacità di far nascere movimenti totalitari, mentre oggi possono far saltare le democrazie tramite i movimenti populisti. Questo è chiarissimo a Biden, che non a caso sta attuando politiche effettivamente espansive, ma dovrebbe esserlo anche in Europa, dove il rischio è più alto e la preoccupazione dovrebbe quindi essere maggiore che non negli Stati Uniti. Date le parole così importanti di Draghi e Macron, che capiscono bene qual è la sfida ambiziosa che ci aspetta, ci dobbiamo attendere non una risposta tecnica, ma politica. E deve coinvolgere tutte le potenze dell’Ue.

La recente proposta del commissario Gentiloni, che prevede di consentire a ogni Paese di negoziare autonomamente con Bruxelles un percorso di riduzione del debito, andrebbe quindi giudicata negativamente visto che si parla sempre di riduzione del debito?

Il pregio di questa proposta è quello di tornare a un concetto importante di autonomia e distinzione delle singole situazioni, ed è quindi da questo punto di vista un contributo positivo al dibattito. Quando, però, finisce per ricordare a tutta l’Europa che l’obiettivo di questa grande costruzione politica è ridurre i debiti, allora il patatrac è assicurato, perché dobbiamo invece immaginare un obiettivo che sia alto: garantire alle future generazioni uno sviluppo sostenibile e giusto. Obiettivo con cui le regole fin qui adottate hanno mostrato chiaramente di non essere coerenti poiché hanno messo al centro la riduzione del debito anziché la crescita delle opportunità, soprattutto per i più deboli, perché, come diceva il grande filosofo John Rawls, una società giusta deve massimizzare il benessere dei più deboli.

(Lorenzo Torrisi)

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