La Germania ha un nuovo Governo. Terminata l’era Merkel, per Berlino ci sono da prendere decisioni che incideranno anche sul futuro dell’Europa. Ci sono infatti da ridiscutere le regole del Patto di stabilità e crescita, attualmente ancora sospese. Ma occorre anche raddrizzare una situazione economica meno florida di un tempo e in cui l’inflazione comincia a mordere. Intanto, giovedì prossimo si riunirà il board della Bce, un appuntamento molto atteso soprattutto dopo la “retromarcia” di Jerome Powell, Presidente della Fed, sulla transitorietà del rialzo inflazionistico. C’è da aspettarsi qualche annuncio o qualche decisione importante da parte dell’Eurotower? «È una domanda cui è difficile rispondere. Mi sembra – ci dice Massimo D’Antoni, Professore di Scienza delle finanze all’Università di Siena – che ci sia in questo momento molta incertezza riguardo ai rischi di inflazione, che potrebbe indurre la Bce a modificare il proprio orientamento, creando l’aspettativa di un rialzo dei tassi. Non mi pare che ci sia consenso né sull’entità di tali rischi, né sull’opportunità di intervenire da parte delle banche centrali, trattandosi di inflazione da costi, dovuta agli effetti della pandemia sull’approvvigionamento di certe materie prime e componenti, più che da domanda. Se dovessi fare una previsione direi che la Bce resterà in attesa, ma non mi stupirei di essere smentito».



Con le sue dichiarazioni sulla non transitorietà del rialzo inflattivo, Powell ha sostanzialmente confermato che la Fed procederà l’anno prossima al rialzo dei tassi di interesse. Questo, in qualche modo, condizionerà l’azione della Bce?

Beh, sì, gli Stati Uniti anticipano quello che potrebbe avvenire anche nell’Unione europea. Tanto più che da questa parte dell’Oceano, come sappiamo, la stabilità dei prezzi ha una rilevanza ancora maggiore per la politica monetaria.



A tal proposito, in Germania l’inflazione è arrivata al 6%. Questo, secondo lei, spingerà Berlino a chiedere con più forza un “tapering” alla Bce? E cosa accadrà, secondo lei, una volta che cesserà il programma Pepp, come previsto a marzo?

Ci sono molti segnali del fatto che la quantità di liquidità in circolazione abbia raggiunto livelli estremamente elevati. Abbiamo già detto dei rischi di inflazione, ma è chiara anche la tendenza ad assumere maggiori rischi da parte degli investitori per trovare rendimenti positivi. Del resto, molti lettori avranno sperimentato la facilità con la quale le banche concedono mutui anche a lungo termine a tasso fisso prossimo a zero, una scelta che in presenza di rischi di inflazione appare poco saggia. Una situazione del genere potrebbe determinare un aumento della fragilità del sistema finanziario e anche questo potrebbe indurre la Bce a modificare la sua condotta rispetto al passato recente. Chiaramente, un rialzo dei tassi sarebbe una pessima notizia per il nostro debito pubblico. Se mettiamo questa possibilità insieme alla decisione sulla revisione delle regole fiscali, direi che il 2022 sarà un anno decisivo per capire il futuro dei conti pubblici italiani.



Il nuovo Governo tedesco si è insediato e si sta dibattendo molto sulla posizione che avrà rispetto alla modifica del Patto di stabilità. Lei cosa pensa al riguardo?

Si è discusso molto sulle virgole dell’accordo di governo per cercare di decifrare l’intenzione della nuova maggioranza tedesca. L’ambiguità della posizione deriva dalla coabitazione di partiti con orientamenti diversi: la SPD e i Verdi sono più morbidi rispetto a una revisione dei meccanismi europei, ma sono alleati con il partito più ostile a ogni cambiamento delle regole, cioè il partito liberale, che peraltro esprime il ministro delle Finanze. Da quel che leggo la principale preoccupazione del nuovo Governo è per la situazione interna, non credo che metteranno a rischio la coalizione litigando sulle regole europee, dunque non credo che assisteremo a grandi cambiamenti nella posizione tedesca. A livello di Unione molto dipenderà, credo, dalla capacità di Francia e Italia di fare blocco comune.

Qualche giorno fa, Gentiloni ha evidenziato che le nuove regole del Patto di stabilità dovranno assicurare “una riduzione del rapporto debito/Pil graduale, credibile e favorevole alla crescita”. Secondo lei, come si può ottenere questo risultato?

Non si potrebbe ottenere con modifiche di facciata, occorrerebbe rinunciare all’obiettivo implicito nelle regole fiscali, che, nella versione attuale di tali regole, è quello di riportare il rapporto debito/Pil al 60% in un orizzonte di 20 anni. Nella proposta formulata prima della pandemia dall’European fiscal board, che a mio avviso resta il punto di riferimento per una possibile riforma, si modificavano i parametri di calcolo, ma l’orizzonte di aggiustamento restava grosso modo lo stesso; quella che variava era la traiettoria del rientro, più graduale nelle fasi iniziali. La proposta avanzata dallo staff del Mes, di fissare il nuovo limite al 100%, richiederebbe una modifica dei trattati e comunque non cambierebbe la situazione in modo decisivo. Ultimamente si parla molto della possibilità di “personalizzare” le regole in base alla diversa situazione dei diversi Paesi. Potrebbe essere una buona notizia, ma occorre consapevolezza di ciò che comporta. 

Cosa intende dire?

Un piano personalizzato negoziato con l’Ue vorrebbe dire per il nostro Paese sottoporsi a un giudizio di merito da parte di Bruxelles sulle politiche attuate dal Governo nazionale. Dal vincolo esterno non si scappa.

(Lorenzo Torrisi)

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