Comincia a entrare nel vivo il dibattito sul futuro del Patto di stabilità e crescita. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha spiegato che tale dibattito “dovrebbe avanzare rapidamente e andare di pari passo con le discussioni in corso sul Piano industriale del Green Deal e sul quadro temporaneo di crisi e transizione”, un tema del quale si è parlato già nel Consiglio europeo della scorsa settimana.



Intanto dagli Stati Uniti è arrivato il dato sull’inflazione di gennaio, che ha fatto registrare un nuovo calo, insieme alla notizia che Lael Brainard, vicepresidente della Federal Reserve, è stata nominata consigliere economico del Presidente Joe Biden. Abbiamo fatto il punto con Domenico Lombardieconomista ed ex consigliere del Fondo monetario internazionale.



Partiamo dal dato sull’inflazione americana, certamente importante pensando anche alle decisioni che dovrà prendere la Fed nei prossimi mesi.

A gennaio l’inflazione negli Stati Uniti è scesa al 6,4% dal 6,5% di dicembre, confermando la discesa monotonica dal picco registrato a giugno, pari al 9,1%. Questa progressiva stabilizzazione del quadro inflazionistico, tuttavia, sta avvenendo a un ritmo più lento rispetto a quanto alcuni analisti si potessero aspettare, ma soprattutto avviene all’interno di un quadro congiunturale macroeconomico molto variegato.

Da che punto di vista?



Più volte il Presidente della Fed Jerome Powell ha spiegato che il corso della politica monetaria viene stabilito sulla base di una serie di indicatori congiunturali tra cui l’andamento del mercato del lavoro. Ebbene, a gennaio negli Stati Uniti sono stati creati oltre mezzo milione di nuovi posti di lavoro e il tasso di disoccupazione è sceso al 3,4%, raggiungendo un livello minimo che non si vedeva dal 1969. Questa tendenza a generare nuovi posti di lavoro dell’economia americana è conseguenza anche del recupero in atto dopo la pandemia che ha distrutto 22 milioni di posti di lavoro e avviene contemporaneamente all’ondata di licenziamenti, che ha avuto un certo risalto sulla stampa, da parte dei Big tech. Non va, però, dimenticato che queste aziende rappresentano solo il 2% dei posti di lavoro del settore privato americano e, da sole, non riflettono le dinamiche congiunturali del mercato del lavoro.

Questo quadro come potrà incidere sulle scelte della Fed, che poi finiscono per influenzare anche quelle della Bce?

È difficile capire quale sarà la postura della Fed nei prossimi mesi. L’aspettativa che finora ha veicolato al mercato è quella di almeno due incrementi dei tassi dello 0,25% in ciascuna delle prossime riunioni di marzo e maggio, con un tasso terminale atteso poco sopra il 5%. Ci sono, tuttavia, alcuni membri del Fomc, circa un terzo, che sostengono la necessità di aumenti ulteriori da giugno in poi, così da portare il tasso terminale almeno al 5,5%. Eppure, i mercati non sembrano credere a una postura della Fed particolarmente aggressiva, tanto è vero che le condizioni finanziarie si sono allentate negli ultimi tempi: per esempio, i tassi a lungo termine sui mutui trentennali sono diminuiti di un punto percentuale di recente. Inoltre, i mercati si aspettano addirittura una diminuzione dei tassi di intervento da parte della Fed verso la fine dell’anno. Questo presenta delle analogie, per certi aspetti, con quello che sta accadendo nell’Eurozona.

Ci può spiegare meglio?

Il quadro macroeconomico è strutturalmente diverso, ma anche in questo caso i mercati non sembrano credere a una postura restrittiva come quella che la Bce tende a veicolare nelle sue comunicazioni ufficiali. Questo ha determinato, fra l’altro, una dinamica dello spread particolarmente favorevole per l’Italia. Di fatto, stiamo beneficiando di queste condizioni di mercato generali sia dell’Eurozona che degli Stati Uniti. Sappiamo, però, che lo spread potrebbe tornare a crescere rapidamente qualora le aspettative di mercato cambiassero e occorre, pertanto, la massima prudenza, anche fiscale.

Quant’è importante, invece, la notizia relativa al passaggio di Lael Brainard dalla Fed alla Casa Bianca?

La nomina implica che i preparativi per la campagna tesa alla rielezione di Biden nel 2024 sono già in corso. Brainard apporterà un calibro intellettuale che potrebbe fare la differenza, consentendo al Presidente di affinare la strategia economica e la conseguenze narrativa in un contesto in cui la comunicazione della Casa Bianca non è sempre stata chiara o efficace. Questo nuovo incarico priva, però, le colombe della Fed di una leadership autorevole e rispettata. Sappiamo, infatti, che Brainard guidava quanti auspicavano un momento di pausa nell’azione della banca centrale per valutare appieno gli effetti delle decisioni di politica monetaria già prese.

Questo avrà ricadute sulla Bce e sull’Europa?

In generale la Brainard rappresenta un interlocutore privilegiato degli europei, anche per la sua storia personale: è nata ad Amburgo e ha vissuto sia nella Germania Ovest che in Polonia prima che negli Stati Uniti. Venendo meno la leader delle colombe in seno alla Fed, bisognerà capire su chi ricadrà la scelta del suo successore prima di poter tirare delle conclusioni.

In Europa, intanto, si torna a parlare di riforma del Patto di stabilità. Cosa pensa della posizione italiana espressa dal ministro Giorgetti?

Occorre partire da una premessa: nell’Ue il mercato unico rappresenta finora il più grande successo del progetto di integrazione, ma ha bisogno di crescita, quindi di investimenti, per poter dispiegare appieno i suoi effetti. La posizione italiana tende a valorizzare la prospettiva del mercato unico e a portare il baricentro della discussione un po’ più sugli investimenti e sulla crescita piuttosto che solo sulla stabilità come tendono a fare, invece, i Paesi del Nord. Bisognerà trovare un punto di sintesi fra quegli Stati che hanno maggiore capacità fiscale, e che tendono a privilegiare la stabilità, e quelli che hanno problemi di crescita con scarsa capacità fiscale e cercano un appoggio cooperativo per fronteggiare gli shock avversi. Credo che la posizione del Governo italiano di far confluire tutti questi dossier su un unico tavolo negoziale sia saggia.

Il tentativo potrebbe essere quello di cercare uno scambio come avvenuto settimana scorsa nel Consiglio europeo?

Sì, tenendo presente che la discussione sul futuro dell’Europa non può essere a senso unico e ridursi a un monitoraggio, più o meno complesso, dei disavanzi fiscali, ma deve valorizzare il potenziale straordinario del mercato unico. La stabilità, nel lungo periodo, può avere senso solo in un contesto di crescita e investimenti e occorrono, quindi, regole fiscali che siano compatibili. Pertanto, nel nuovo Patto di stabilità bisognerà consentire che gli investimenti non vengano penalizzati e allo stesso tempo che gli effetti del Pnrr possano essere valorizzati appieno.

Rispetto a quest’ultimo aspetto anche l’Italia dovrà fare la sua parte…

Proprio così. Sarà importante evitare le critiche che potranno emergere da parte dei partner europei relative ai timori che i fondi del Pnrr vadano a finanziare i progetti previsti con ritardo. Peraltro, questo è un punto che il presidente del Consiglio, quand’era all’opposizione, aveva sollevato e che ora ha ereditato. Va in ogni caso evidenziato che, proprio in virtù del suo poderoso debito pubblico, l’Italia non può rifuggire dalla disciplina fiscale, che deve essere conciliata con attive politiche di crescita.

Cosa può mettere l’Italia sul piatto come contropartita rispetto alle sue richieste?

Quello che l’Italia chiede è in linea con le prospettive e le esigenze di lungo termine dei Paesi nordici, nel senso che siamo tutti interessati alla stabilità fiscale, tutti vogliamo un quadro di sostenibilità, a partire dall’Italia che deve rifinanziare il suo debito pubblico. Tuttavia, il nostro Paese ha una preoccupazione in più: che l’Europa non si riduca solo a un insieme di regole, ma che generi anche le condizioni per un mercato unico che sia più dinamico, soprattutto a fronte di strategie e vincoli che promanano da Bruxelles. Credo che, in questo senso, lo stop arrivato l’altro giorno dall’Europarlamento alla produzione di auto con motore termico dal 2035 sia particolarmente emblematico.

Ci spieghi meglio.

La decisione europea impone oneri di ristrutturazione delle filiere industriali che sono particolarmente gravosi per un Paese come l’Italia, che è la seconda manifattura europea. Oltre questo caso specifico, poi, c’è l’esigenza di compiere un salto di qualità nella difesa dei confini europei, con ulteriori investimenti. In questo quadro, l’Italia sta spingendo per bilanciare una visione di breve termine incentrata sulle regole fiscali con una più strategica di lungo periodo su quale debba essere il ruolo dell’Europa e come tutelare il mercato unico. Un obiettivo, quest’ultimo, che è incompatibile con l’allentamento della disciplina degli aiuti di Stato che privilegia solo alcuni Paesi, a danno di altri. Da qui il sostegno dell’Italia alla costituzione di un fondo sovrano per finanziare investimenti strategici in settori tecnologici, legati alla transizione. A fronte di situazioni inedite occorre adottare un approccio che sia all’altezza delle sfide in campo. Su questo l’Ue, che ha al suo interno un dinamica burocratica abbastanza forte, stenta ancora a trovare la quadra.

Di fatto l’Italia mette sul piatto un metodo per raggiungere obiettivi di lungo termine?

Esatto, un metodo all’altezza delle sfide che stiamo vivendo, che non sono convenzionali e probabilmente non erano neanche particolarmente prevedibili. L’Europa per consolidare i successi che finora ha raggiunto ha bisogno di mettere in campo soluzioni non convenzionali. Lo ha fatto, e anche bene, nel caso della pandemia: ora rispetto alla crisi geopolitica ed energetica e alla transizione ecologica occorre ulteriore un salto di qualità parimenti significativo.

(Lorenzo Torrisi)

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