Il documento messo a punto dagli economisti del Mes riportato in esclusiva da Handelsblatt fa sembrare possibile una modifica delle regole del Patto di stabilità e crescita ora sospese. E conferma che “dietro le quinte” il dibattito sul tema è già stato avviato. Bisognerà però probabilmente attendere non solo la formazione del nuovo Governo tedesco, ma anche le elezioni presidenziali francesi (primavera 2022) prima che si possano effettivamente prendere delle decisioni in merito.
Per Domenico Lombardi, economista ed ex consigliere del Fmi, «il fatto che un quotidiano tedesco sia venuto in possesso in esclusiva dello studio del Mes non fa che avvalorare le tesi di chi ritiene che ci sia una certa contiguità tra il Fondo salva-stati e alcuni circoli politici e intellettuali della Germania. Al di là di questo, trovo comunque inappropriato che uno studio su un tema così importante per il futuro dell’Europa non venga condiviso con gli stakeholder, con quanti seguono l’operare del Mes pur dall’esterno, come avviene in casi analoghi negli Stati Uniti. Credo che questo non faccia bene all’accountability del Mes».
Per quanto riguarda il contenuto dello studio, cioè la possibilità di innalzare il parametro sul rapporto debito/Pil dal 60% al 100%, pensa che possa essere una soluzione valida?
Di fatto significa prendere atto della situazione post-pandemica dell’Eurozona, visto che il rapporto debito/Pil dell’intera area dell’euro ammonta al 99%. Detto questo, però, dobbiamo anche guardarci da possibili insidie. Il mio timore è che questa “apertura”, che in realtà non è altro che un esercizio di realismo, possa giustificare in modo tattico chiusure su altri aspetti che, invece, per l’Italia sono più dirimenti.
Può spiegare meglio cosa intende dire?
Prevedere un rapporto debito/Pil al 100% anziché al 60% non cambia molto per l’Italia, dal momento che ha un ratio al 155%. Per la nostra economia sarebbe invece importante ottenere una maggiore flessibilità sia sul livello del deficit ammesso, sia sulla sua composizione. Su questo, però, sembra di capire che ci sia una sostanziale chiusura. Il mio timore, quindi, è che il dibattito si occupi di un aspetto che non è rilevante per il nostro Paese. Come non lo sarebbe per la Spagna o la Grecia, visto che hanno un debito/Pil al 120% e al 200%, rispettivamente. Alla fine questa modifica servirebbe solo a rafforzare la credibilità delle regole europee e a dare maggior trazione all’impianto sanzionatorio. Non si potrebbe, infatti, più contestare l’inadeguatezza del parametro debito/Pil rispetto alla situazione corrente.
Sostanzialmente verrebbe aggiornato il parametro lasciando però intatto l’impianto delle regole che non pare aver dato risultati brillanti nel corso degli anni.
Esattamente. Tra l’altro quell’impianto guadagnerebbe credibilità e rischierebbe quindi di penalizzare ancora di più l’Italia, perché non si potrà dire che i partner europei non si siano posti il problema di adeguare il parametro debito/Pil che altrimenti sarebbe risultato irrealistico. Per il nostro Paese rimarrebbe, invece, intatto il problema relativo al fatto che per sfruttare pienamente l’impatto delle risorse del Next Generation Eu occorre una politica fiscale più espansiva che dovrebbe essere incastonata nelle regole europee
In effetti, sembra che il parametro del 3% di deficit/Pil non sia in discussione. Si parla semmai di prevedere lo scorporo dal computo del disavanzo delle spese green.
Ritengo che sarà il Governo tedesco che vedrà la luce dagli attuali negoziati a decidere la direzione verso cui l’attuale dibattito sulla riforma delle regole del Patto di stabilità dovrà tendere. Credo sia, in ogni caso, importante sottolineare che qualsiasi risultato dovesse emergere dovrebbe essere coerente con la risposta che l’Ue ha dato all’emergenza pandemica. Non possiamo, in altre parole, da un lato, tendere la mano ai Paesi che sono stati maggiormente colpiti fornendo loro degli aiuti potenzialmente significativi, e, dall’altro, frenarne l’efficacia mantenendo regole che sono incompatibili con lo spirito e la sostanza che ha alimentato proprio quella decisione di fornire aiuti su vasta scala.
Il dibattito entrerà nel vivo solo dopo le presidenziali francesi, quindi a metà del 2022. Per l’Italia sarà meglio avere ancora Draghi a palazzo Chigi?
L’eventuale elezione di Draghi al Quirinale non implicherebbe un’abdicazione del neopresidente della Repubblica rispetto al suo ruolo di punto di riferimento del Paese. Risulterebbe, in altri termini, inverosimile un assetto istituzionale in cui il Governo incarnasse un pensiero disteonico a quello del capo dello Stato, anche se la nozione di interesse nazionale nel rapporto con gli altri partner europei troverebbe un diverso punto di equilibrio in funzione del tipo di coalizione di governo in carico. Quello che voglio dire è che Draghi al Quirinale rappresenterebbe comunque una bussola sia per le dinamiche interne all’Italia che nei rapporti con i partner europei. Inoltre, si preserverebbe l’ex Presidente della Bce dal logoramento che ora sta subendo a palazzo Chigi a causa dell’eterogeneità della maggioranza.
Cosa pensa invece delle dimissioni di Jens Weidmann dalla guida della Bundesbank arrivate la scorsa settimana?
Il timing coincide con l’esito elettorale tedesco e non dobbiamo dimenticare che Weidmann è stato consulente della Merkel ed è diventato Presidente della Bundesbank nel periodo in cui la Cdu/Csu ha avuto la guida del Paese. Detto questo, a mio avviso le sue dimissioni si inquadrano in un contesto più strutturale, in cui la politica monetaria si è evoluta in modo significativo rispetto a quella che era la sua visione tradizionalista, eccessivamente incentrata sulla relazione deterministica tra aggregati monetari e dinamiche dei prezzi. Basti pensare che oggi lo stesso membro tedesco del board della Bce, Isabel Schnabel, afferma che le politiche monetarie non convenzionali sono da considerarsi, invece, convenzionali e parte dell’arsenale in dotazione permanente alla Bce. Credo che le dimissioni di Weidmann segnino la sconfitta di quegli economisti tedeschi ancorati a una visione molto semplicistica del funzionamento dei meccanismi monetari oggi influenzati da un mixi di variabili strutturali, come, per esempio, la globalizzazione piuttosto che il cambiamento demografico, senza contare la digitalizzazione.
I “falchi” ora sono quindi sconfitti nella Bce e rimangono solo tra i Paesi membri?
Il board della Bce è stato modernizzato, oggi ci sono esponenti che sono più in linea con una visione moderna del central banking. Credo che ora ci siano da modernizzare le “seconde linee”, quindi i quadri direttivi che riportano al board. Quelli di estrazione tedesca sono ancora in qualche modo figli intellettuali e professionali della vecchia Bundesbank. Mi aspetto che col tempo la modernizzazione avviata da Draghi, e proseguita da Lagarde, si estenda poi anche alle seconde linee: è inevitabile.
(Lorenzo Torrisi)
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