Come noto, le regole del Patto di stabilità e crescita in Europa resteranno sospese fino al 2023, ma da tempo si parla dell’opportunità di una loro modifica, che dovrebbe essere naturalmente frutto di un confronto tra i Paesi membri. In questo senso, pochi giorni fa, in occasione dell’Eurogruppo svoltosi in Slovenia, ben 8 Paesi (Austria, Olanda, Danimarca, Svezia, Finlandia, Lettonia, Slovacchia e Repubblica Ceca) hanno ribadito l’importanza di ridurre disavanzo e rapporto debito/Pil in tutta l’Ue. «A quanto pare – ci spiega Massimo D’Antoni, Professore di Scienza delle finanze all’Università di Siena – si comincia a entrare nel vivo della discussione sulla riforma del Patto di stabilità e crescita, si creano alleanze e iniziano le prese di posizione. Forse occorre fare un passo indietro e spiegare di cosa parliamo»
Prego.
Nella primavera del 2020, con il diffondersi dell’epidemia in Europa, fu attivata la clausola che consente, in casi eccezionali, di sospendere le regole di bilancio europee. Tale sospensione si protrarrà fino a tutto il 2022, ma i vincoli di bilancio dovrebbero essere ripristinati a partire dal 2023. Nel frattempo, l’Ue ha avviato un confronto sulla revisione delle regole fiscali, vista la loro inadeguatezza sia strutturale che contingente.
Cosa intende per strutturale e contingente?
Alcuni limiti strutturali di quelle regole, quali la scarsa trasparenza, il riferimento a parametri definiti in modo arbitrario nonché, secondo alcuni commentatori, la politicizzazione della loro applicazione dovuta a un’eccessiva discrezionalità, erano già stati messi in luce prima della pandemia. A questo si aggiunge una ragione contingente: la consapevolezza che un ripristino di quelle regole senza alcuna riforma significherebbe porre una buona parte dei Paesi membri immediatamente in procedura di infrazione per deficit eccessivo. Leggevo proprio stamattina una stima secondo la quale, a regole invariate, nel 2023 sarebbero in infrazione metà dei Paesi Ue, tra cui Francia, Spagna, Italia, Portogallo e Belgio. Ma regole che sono sistematicamente violate perdono credibilità. Naturalmente, la comune volontà di cambiare ancora non basta a dirci se le modifiche su cui si troverà consenso saranno marginali o più sostanziali. La lettera degli 8 mette le mani avanti.
Tra questi 8 Paesi non figura la Germania. È solo perché si avvicinano le elezioni?
La Germania di solito non firma questo genere di appelli. Per far valere le proprie ragioni conta sulla propria forza politica ed economica. Certo, salta all’occhio che gli 8 firmatari siano per lo più Paesi che hanno un forte legame economico e politico con la Germania: Austria e Paesi Bassi, Repubblica Ceca e Slovacchia, a cui si aggiungono i tre Paesi scandinavi dell’Ue e la Lituania. Alcuni di questi Paesi hanno sempre assunto questo ruolo di “falchi” nelle trattative, lasciando alla Germania il ruolo di arbitro nel raggiungimento di una sintesi con le istanze dei Paesi latini.
Quanto inciderà il risultato del voto tedesco sulle trattative per modificare le regole del Patto di stabilità?
I pronostici sono per una vittoria della Spd, che nel suo leader Scholz non incarna certo una linea di discontinuità sulle regole fiscali rispetto alla posizione tenuta negli ultimi anni da Angela Merkel. Quanto ai Verdi, in Germania incarnano una linea centrista. La vera incognita è il tipo di coalizione che risulterà premiata dalle urne: una coalizione con Verdi e la sinistra della Linke potrebbe portare a un qualche ammorbidimento, ma molto dipende dai rapporti di forza. Quand’anche la Linke si trovasse ad avere una reale forza contrattuale, non sono proprio sicuro che la spenderebbe su questo tema. Insomma, prevedo una sostanziale continuità della linea tedesca, magari con un’apertura sulle spese ambientali.
A cosa si riferisce?
Beh, una delle ipotesi di lavoro sulle quali ci si sta muovendo nell’Ue è l’introduzione di un’esenzione dai vincoli di spesa delle spese “verdi” finalizzate a fronteggiare il cambiamento climatico. C’è timore che l’austerità possa compromettere proprio queste spese, indispensabili per rispettare gli obiettivi della transizione ecologica. Non dimentichiamo che nel decennio passato sono stati gli investimenti a soffrire maggiormente dei tagli di spesa e di questo c’è consapevolezza. Introdurre una sorta di “golden rule” che escludesse dal conto le spese per l’ambiente e la riconversione energetica potrebbe dare respiro ai bilanci pubblici e avrebbe buone possibilità di trovare un consenso ampio in Europa. Non sorprende che questa sia la linea della Francia, nonché probabilmente ciò che ha suscitato l’altolà degli 8 Paesi rigoristi, che temono che il risultato finale sia un abbandono del rigore di bilancio.
Secondo alcuni analisti, i Trattati non potrebbero essere cambiati, dunque eventuali modifiche potranno riguardare Six Pack e Two Pack. Ragionevolmente quali risultati si potrebbero ottenere in questo caso?
In astratto lo spazio potrebbe essere ampio. I trattati vincolano il deficit al 3% e il debito al 60% del Pil, ma poi sono i regolamenti a tradurre questa indicazione in termini operativi. Ad esempio, la regola del debito, che impone la rapidità di avvicinamento all’obiettivo del 60%, è definita nei regolamenti che citava, e sono i regolamenti a definire le modalità di sorveglianza delle politiche di bilancio, le regole con le quali si decide se c’è stata infrazione, le sanzioni da applicare, e così via. Molti dei vincoli che spesso vengono erroneamente attribuiti al Fiscal compact sono in realtà codificati nei regolamenti che compongono il Six Pack. Questo per dire che, anche senza intervenire sui trattati, le regole di bilancio possono essere alleggerite in modo sostanziale. Ma ovviamente una cosa è quel che si può fare in astratto, un’altra quel che si farà sulla base dei rapporti di forza.
Francia e Italia sono sempre più vicine. E anche Oltralpe i conti pubblici sono peggiorati negli ultimi anni. Basta l’asse Roma-Parigi per sperare in regole meno penalizzanti delle attuali?
C’è una convergenza di interessi, certo. La Francia uscirà dalla pandemia con un debito pubblico vicino al 120% del Pil. È dunque prevedibile che il confronto sarà tra la parte “latina” dell’Ue, capeggiata dalla Francia, e quella centro-nordica che spinge per minimizzare i cambiamenti.
Il ministro dell’Economia Franco si è detto “tranquillo” sul fatto che si troverà una soluzione e che ridurre il debito pubblico non può che aiutare la crescita di un Paese. Cosa ne pensa?
Immagino che questo sia il suo pensiero, ma in ogni caso cosa potrebbe dire di diverso? A me piacerebbe però che il tema fosse oggetto di un po’ più di discussione pubblica, in primis in Parlamento. Non mi risulta che sia stato spiegato quali sono gli obiettivi dell’Italia e quale la strategia nella negoziazione che si avvia. Con quale mandato del Parlamento il Governo affronta le negoziazioni?
Gentiloni ha invece evidenziato che l’obiettivo della Commissione europea è “rendere le nostre regole adatte a uno sviluppo duraturo e sostenibile”. Questo è possibile? A che condizioni?
Messa così, se mi permette, è un’affermazione generica che chiunque potrebbe sottoscrivere. Il problema è che per qualcuno la sostenibilità è garantita da una rapida ed energica riduzione del debito, per altri sostenibilità significa che il consolidamento fiscale non deve compromettere politiche di sostegno all’attività economica e alla coesione sociale. Confido che Gentiloni sia più per questa seconda accezione del termine.
Passiamo alla Bce. Ridurrà gli acquisti di titoli di stato nell’ambito del programma Pepp, ma Lagarde, nella conferenza stampa di giovedì scorso, ha spiegato che non si tratta di “tapering”. Per l’Italia cambierà comunque qualcosa?
Lagarde ha detto chiaramente che le variazioni in corso rappresentano una calibrazione del programma e non indicano un mutamento di rotta. Non vedo dunque per ora motivi di preoccupazione. Decisioni più sostanziali sono rinviate.
Lagarde ha anche detto che a dicembre ci saranno novità “interessanti”. Cosa possiamo aspettarci?
A dicembre il board della Bce affronterà il tema di come uscire dai programmi di emergenza avviati con la pandemia. Inoltre, si capirà che atteggiamento la banca intende prendere rispetto ai segnali inflazionistici. È difficile fare previsioni, ma confido in un atteggiamento prudente. Credo che a Francoforte siano ancora scottati per l’errore compiuto nel 2010, quando si ebbe troppa fretta di dichiarare conclusa la fase emergenziale della crisi finanziaria.
Lagarde ha anche spiegato che non ci sono state divisioni nelle votazioni dell’ultimo board, nessuno scontro tra falchi e colombe. Tatticismo? Scontro solo rimandato?
Sappiamo che ci sono differenze di sensibilità tra i membri del board, che grosso modo si sovrappongono a quelle esistenti in tema di regole fiscali. Ma per le ragioni che dicevamo credo che sia come dice lei: il confronto su questo tema è rinviato.
(Lorenzo Torrisi)
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.