Il presidente del Consiglio Mario Draghi, nella presentazione in Parlamento prima dell’ultimo Consiglio europeo del 2021, ha rotto il silenzio che – come sottolineato da questa testata – gravava da mesi sulle principali regole di funzionamento dell’unione monetaria europea: quelle attinenti ai parametri e ai criteri per la valutazione delle politiche di bilancio. Ha detto esplicitamente che, dopo la pandemia, non si può pensare di tornare sic et simpliciter a quelle definite trent’anni fa quando venne negoziato il Trattato di Maastricht: un debito della Pubblica amministrazione pari al 60% del Pil e un indebitamento netto annuale delle pubbliche amministrazioni non superiore al 3% del Pil. Ha anche sottolineato che occorrerà rivedere le regole per gli aiuti di Stato nel mercato unico.



Si sono di fatto aperti almeno i prolegomeni di una trattativa, anche se l’ordine del giorno del Consiglio del 16 dicembre, dedicato essenzialmente alla pandemia e alle relazioni internazionali dell’Unione europea, non prevedeva che questi temi fossero in discussione. Dato che si stima che l’Ue torni a una “nuova normalità” nel 2023, i negoziati occuperanno gran parte del 2022. È auspicabile che per l’Italia vengano guidati da Draghi nella veste di presidente del Consiglio data l’autorevolezza di cui gode a livello internazionale.



Il ritorno a una “nuova normalità” in materia di politiche di bilancio e di aiuti di Stato non può essere disgiunta da una “nuova normalità” in tema di politica monetaria. In questo campo, la settimana scorsa la Federal Reserve e la Banca centrale europea hanno lanciato segni inequivocabili.

Dagli annunci che le due banche centrali hanno fatto negli ultimi giorni (il 15 dicembre la Fed e il giorno seguente la Bce) – ha acutamente sottolineato Angelo Baglioni dell’Università Cattolica – è possibile prevedere diverse velocità. La Federal Reserve anticipa un aumento dei tassi di interesse già da marzo-aprile 2022, mentre la Bce rinvia la mossa fino alla fine dell’anno prossimo. La Bce assicura in maniera esplicita il rinnovo dei titoli in scadenza, acquistati con il Pandemic Emergency Purchase Programme, per almeno tutto il prossimo triennio. La Fed è più vaga su questo punto, probabilmente contando sul fatto che la “nuova normalità” della politica monetaria statunitense già prevede il mantenimento di un ampio portafoglio-titoli. Inoltre, la Bce compensa la fine del Pepp con un rafforzamento dell’altro programma (Asset Purchase Programme), seppure in misura inferiore rispetto alle attese dei mercati. 



La diversa velocità delle due banche centrali sembra riflettere preoccupazioni in parte differenti. La Fed è più preoccupata che la dinamica inflazionistica possa sfuggirle di mano, la Bce sembra più preoccupata di un possibile ritorno della pandemia, ma soprattutto deve fare i conti con la delicata situazione dei Paesi ad alto debito, come l’Italia, e con l’impatto destabilizzante che una rapida uscita dalle misure monetarie non convenzionali, quali il Qe, potrebbe avere sul mercato del debito pubblico di quei Paesi. All’interno del Consiglio direttivo della Bce i “falchi”, che premevano per un rapido abbandono del Qe, sono stati messi in minoranza (per ora).

In tema di monitoraggio delle politiche di bilancio, una riflessione è in corso da mesi tra esperti. Ci sono sempre state differenze profonde tra gli Stati del Nord Europa (fautori di politiche di bilancio molto rigorose) e quelli del Sud Europa (che hanno richiesto una maggiore flessibilità). L’unione monetaria europea non è un’area valutaria ottimale e quindi necessita di regole comuni per la vigilanza delle politiche di bilancio, se non si vogliono attuare trasferimenti tra Stati con bilance dei pagamenti tendenzialmente eccedentarie e Stati con bilance dei pagamenti tendenzialmente deficitarie. Ipotesi, questa, da sempre scartata nel dibattito sull’integrazione europea.

La riflessione a livello a tecnico ha portato alla formulazione di varie soluzioni su come sostituire i “parametri di Maastricht”. Ad esempio, l’ex Capo economista del Fmi, Olivier Blanchard, ha proposto di sostituire “le regole di Maastricht” per tenere conto dei livelli più elevati di debito (la media del debito delle pubbliche amministrazioni dell’area dell’euro è ora pari al 100% del Pil – in gran parte a ragione delle spese dovute alla pandemia – non al 60% come trent’anni fa) con standard di bilancio che lascino spazio al giudizio insieme a un processo per decidere se gli standard sono soddisfatti. Un ruolo di sorveglianza più ampio verrebbe affidato agli Uffici parlamentari di bilancio indipendenti dei 19 e alla Commissione europea, nonché a un organo giudiziario per la risoluzione delle controversie. Altre proposte (quali quelle di Ragot-Martin e Pisani Ferry) riguardano l’accento sulla spesa pubblica di parte corrente da adattare ai singoli Paesi e da inserire nel contesto di una common fiscal stance concordata a livello europeo. Probabilmente, se ne farà poco o nulla perché comportano modificare il Trattato di Maastricht, con conseguenti ratifiche da parte di 19 Parlamenti.

Sono, però, concepibili protocolli o accordi “interpretativi” (a ragione della crisi sanitaria ed economica) e norme per la “transizione”, ossia per definire il numero di anni per tornare all’applicazione del “sistema Maastricht” e quali regole applicare in questi anni. Anche in questa materia, la strada è complicata e tutta in salita. Ad esempio, se si dovesse tornare una regola per il debito simile a quella del Trattato di Maastricht, spostando l’asticella al rapporto debito/Pil al 100% (ora, come si è detto, è la media della situazione nei 19 Stati dell’euro) e prevedendo un periodo di transizione di cinque anni per fare l’aggiustamento, l’Italia avrebbe davanti a sé cinque anni di politiche di austerità severissime.

È possibile, anche nel contesto del Next Generation Eu, modificare alcune regole contabili quali scorporare dal computo dell’indebitamento netto della Pubblica amministrazione le spese pubbliche per la transizione ecologica e tecnologica. Tale proposta troverebbe favorevoli numerosi Stati “rigoristi”, specialmente che utilizzano ancora molto i combustibili fossili per la produzione di energia.

La Germania è il Paese che dà le carte e può mediare tra gli Stati più rigoristi e quelli più “flessibili”. Olaf Scholz è stato Vice Cancelliere e ministro delle Finanze dell’ultimo Governo di Angela Merkel; ai Liberali dell’FDP è stato assegnato, tra l’altro il ministero delle Finanze di cui è titolare Christian Lindner: la Cancelleria e il ministero delle Finanze sono le istituzioni chiave per la politica tedesca nell’area dell’euro. Scholz è conosciuto come “un uomo tranquillo”. Lindner – è noto – è uno dei fautori del ritorno al più presto delle regole di Maastricht tali e quali scritte nel dicembre 1991.

Un’alleanza tra Italia e Francia potrebbe essere essenziale per il buon esito della trattativa: il “Trattato del Quirinale” ne fornisce la cornice. Occorre utilizzarla bene.

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