Di riforma del Patto di stabilità si tornerà ormai a parlare nel 2022, anno in cui tra l’altro cade il ventennale dell’inizio della circolazione dell’euro, un anniversario a cui Sergio Cesaratto ha dedicato l’ultimo working paper (in lingua inglese) che può essere scaricato qui.
Al termine dell’incontro di lunedì tra Olaf Scholz e Mario Draghi, il primo ha ricordato che le regole del Patto di stabilità hanno funzionato e dimostrato di avere una certa flessibilità, mentre il secondo si è detto ottimista sulla possibilità che si raggiunga un accordo sulla riforma di tali regole. Si troverà davvero un’intesa? «Gli accordi – ci dice il Professore di Politica monetaria europea all’Università di Siena – si trovano sempre. Certo è una strada in salita. Il Governo italiano farebbe bene a sottolineare in ogni circostanza quanto il nostro Paese abbia pagato la cattiva gestione della crisi finanziaria, mentre Berlino ci guadagnava su (si veda il mio ultimo articolo su Brave New Europe). Probabilmente si giungerà a una soluzione alla tedesca.
Che cosa intende dire?
Il Governo tedesco, per rispettare il pareggio di bilancio, finanzierà le ingenti spese previste per la transizione verde e quella digitale effettuandole fuori bilancio. In Europa, se tutto va bene, si potranno trovare forme di stabilizzazione dei finanziamenti europei come il fondo Sure o il Recovery fund. Certo, il passo ulteriore è il coordinamento delle politiche fiscali, e di queste con la politica monetaria. È ampiamente riconosciuto come questo sia essenziale per un’unione monetaria ben funzionante. Qui sarà difficile ottenere qualcosa poiché certi principi sono anche iscritti nei Trattati, difficili da modificare. Però la stessa Bce è cambiata in questi anni, e i suoi economisti hanno denunciato come la Banca sia stata lasciata sola nello scorso decennio a fronteggiare la crisi, mentre la politica fiscale remava contro. È presto per dire se Joachim Nagel, il prossimo Presidente della Bundesbank, sarà un signor no come Jens Weidmann, oppure più abile a far passare il punto di vista tedesco per cui la politica monetaria dovrebbe astenersi da orientamenti troppo espansivi. Certo Nagel e il nuovo ministro delle Finanze Lindner sono rappresentanti di una Germania incapace di offrire leadership. E anche le dichiarazioni di Olaf Scholz sono nel segno della continuità.
Nei giorni scorsi sembra essersi creato un asse tra Roma e Parigi con l’obiettivo di rivedere la regola sul deficit/Pil in modo da scomputare alcuni investimenti, riguardanti in particolare le transizioni ecologica e digitale. Sarebbe una modifica positiva?
Appunto, è questa la strada forse possibile: salvaguardare gli obiettivi fiscali, ma europeizzare il finanziamento degli investimenti pubblici. Con più forza il Governo italiano dovrebbe imporre una modifica di linguaggio all’Europa, da parole come “inclusione” e cose del genere che non vogliono dire nulla, a obiettivi di garanzia e convergenza su occupazione, diritti, istruzione, sanità… Gli obiettivi fiscali dovranno essere e saranno sperabilmente rivisti: via l’obiettivo del 60% di rapporto debito pubblico su Pil in venti anni; parametri incalcolabili e perversi come l’output gap; bloccare ogni conferimento di maggiori poteri a organi tecnocratici come il Mes. Non ci possono essere regole meccaniche, ma il pericolo è che a regole meccaniche ne vengano sostitute altre, solo apparentemente più ragionevoli. È la Commissione che deve decidere, e farlo guardando alla situazione Paese per Paese. Non possono essere ripetuti gli errori degli scorsi decenni. La sostenibilità economica e sociale delle misure di politica economica è la priorità, non assurdi obiettivi fiscali validi sempre e comunque.
Questa modifica sulle regole del deficit sarebbe anche “risolutiva” rispetto ai problemi evidenziati dallo stesso Draghi, secondo cui le regole del Patto di stabilità “non sono andate bene. Erano pro-cicliche, hanno aggravato i problemi dei Paesi che si trovano in crisi, non hanno sostenuto i Paesi che ne avevano bisogno”?
Di risolutivo non c’è nulla, specie in una creatura “balorda” come l’Europa monetaria. Come abbiamo detto, gli errori europei del passato, che l’Italia ancora paga, non possono essere ripetuti. Serve flessibilità e intelligenza. La sostenibilità sociale ed economica, il progresso di ciascun Paese, la convergenza, dovrebbero costituire l’asse della governance europea.
Nel 2022 si festeggiano i 20 anni dell’euro. Che bilancio farebbe di questa esperienza di moneta unica europea?
In verità l’euro nasce tecnicamente nel 1999 quando furono fissati in maniera irreversibile i tassi di cambio fra le monete partecipanti. È vero però che monete e banconote in euro cominciarono a circolare il 1° gennaio 2002. L’euro nasce dall’idea di un élite di centro-sinistra che solo un ancoraggio europeo avrebbe tratto fuori l’Italia da un’economia disordinata, inflazionistica, conflittuale. La scelta fu fatta dall’adesione al Sistema monetario europeo nel 1979. Lo Sme era un accodo di cambio che nel 1999 si trasformò in euro. La liberalizzazione dei movimenti di capitale, lo Sme e il “divorzio” fra Banca d’Italia e Tesoro del 1981 furono un drammatico “cambio di regime” disinflazionistico. Questo avrebbe richiesto anche politiche fiscali restrittive, che i Governi degli anni Ottanta non adottarono privilegiando la crescita, spesso purtroppo con una spesa pubblica sgangherata.
E infatti il debito pubblico crebbe molto…
Sì, quel mix insostenibile è stato la causa dell’esplosione del debito pubblico che ancora ci tiriamo dietro. Dopo la momentanea (e benefica) uscita dallo Sme fra il 1992 e il 1996, il cammino verso l’euro fu compiuto a colpi di austerità. Dal 1995 la produttività ha cominciato a stagnare. La deflazione è stata ottenuta al prezzo di un Paese impoverito. Erano possibili altre strade? Certo il riformismo dell’élite che ha guidato l’Italia nello Sme e nell’euro ha fallito. Era un altro riformismo possibile? La domanda vale anche per l’oggi, sebbene nell’euro le strade siano più strette. L’Europa deve fare la sua parte, e noi la nostra. Purtroppo il basso ventre del Paese non è riformista (in senso socialista), e gli orientamenti elettorali prevalenti sono per forze politiche bigotte, squalificate, conservatrici. Che rinnovamento potrà mai venire da costoro? Basti pensare al comportamento irresponsabile tenuto nella lotta contro la pandemia. L’Italia non ha bisogno di Bolsonaro (o peggio di Bolsonare). Ma la sinistra impari dal Cile a cui tutti i progressisti guardano con speranza e simpatia.
La Bce ha visto al rialzo, quasi raddoppiandole, le stime sull’inflazione del 2022. Tuttavia non prevede rialzi dei tassi, come invece la Fed o la Boe (che ha già iniziato a incrementarli). Cosa ne pensa?
Per l’Italia è naturalmente un fatto positivo, sebbene, naturalmente, l’inflazione non lo sia per i lavoratori. La sostenibilità del debito pubblico è notoriamente sensibile ai tassi di interesse. Il Quantitative easing va continuato, e i titoli già acquistati tenuti fino a scadenza per reinvestirne i proventi in nuovi titoli. Ma una stretta europea laddove l’inflazione è di natura importata ci getterebbe nella stagflazione. Vedremo peraltro se la ripresa continuerà ai ritmi previsti, o se una recrudescenza della pandemia non la frenerà. Un eventuale aumento dei tassi, comunque, potrebbe non essere un problema laddove si riducano adeguatamente gli spread coi titoli tedeschi, vale a dire i tassi tedeschi aumenterebbero, mentre quelli italiani no.
È possibile ottenere questo risultato?
Occorre una qualche forma di assicurazione europea sul debito italiano che una nuova governance potrebbe e dovrebbe in un qualche modo offrire. L’Italia ha già pagato, senza ragione, gli errori passati. L’Europa e la Germania ci devono un risarcimento.
(Lorenzo Torrisi)
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