Il senso del ridicolo era stato convenzionalmente sospeso quando, con il sostegno di alcune nazioni occidentali, i ribelli libici liquidavano il regime di Gheddafi, dittatore compreso. Venivano definiti “i movimenti democratici di liberazione”, ma erano semplicemente bande armate tribali desiderose di riprendere il controllo del territorio e di mettere fine alla lunga tregua imposta dal famigerato Colonnello.
Controllo del territorio ha significato anche approvvigionamento delle royalties pagate dalle società che estraggono petrolio e gas e gestione delle tratte dei migranti provenienti principalmente dai paesi del sud Sahara e del Centro Africa. Cose note, ma che per lungo tempo abbiamo preferito ignorare, quando sul presupposto di accogliere profughi provenienti dai conflitti bellici venne promossa con Mare nostrum una unilaterale operazione di “salvataggio” in acque internazionali. Operazione sciagurata che, oltre a offrire una sorta di appoggio indiretto ai trafficanti che imbarcavano persone, donne e bambini rigorosamente inclusi, su mezzi sempre più precari, ha favorito la formazione di un’abnorme bolla di migranti detenuti nei centri di “accoglienza” libici.
L’inversione di rotta si è prodotta con l’avvento del ministro Minniti che ha spostato sui paesi di origine dei migranti e nelle intese con le nuove “autorità” libiche le azioni di contrasto che hanno prodotto il risultato di ridurre drasticamente i flussi. E sono proprio queste ultime, le intese con le cosiddette “autorità” libiche a essere tornate al centro dell’attenzione, anche grazie a una meritevole inchiesta del quotidiano Avvenire, che ha portato prove sulla presenza del principale Ras dei trafficanti libici agli incontri istituzionali promossi dal ministero dell’Interno italiano finalizzati a concretizzare le azioni volte a contrastare i flussi irregolari.
Fatto destinato a rendere incerto il proseguo delle intese a suo tempo raggiunte, e che verrebbero automaticamente prorogate in assenza di un’esplicita disdetta di una delle parti. L’evidenza di una collusione tra le autorità libiche in questione e i trafficanti di persone detenute in centri dove si praticano ogni sorta di tortura e ricatti nei confronti delle stesse ha mobilitato una parte dell’opinione pubblica e di rappresentanti parlamentari nel chiedere la disdetta degli accordi. Scelta che potrebbe essere moralmente comprensibile, ma per fare che?
La domanda non può essere elusa, e le eventuali risposte non possono ignorare alcune evidenze. La prima, del tutto trascurata nelle polemiche, riguarda gli interessi economici legati all’estrazione del gas e del petrolio provenienti dalla Libia e che rappresentano una parte vitale degli approvvigionamenti energetici del nostro Paese. La continuità di queste attività viene garantita dalla distribuzione alle fazioni che controllano il territorio delle royalties a suo tempo convenute con il regime di Gheddafi. Queste risorse sono ben altro rispetto ai 50 milioni di euro erogati alla Guardia costiera libica.
La seconda evidenza, riguarda l’esito di queste intese. Esse hanno contribuito a ridurre gli imbarchi nel Mediterraneo, ma indirettamente, e questo si fa finta di ignorarlo, a scoraggiare le partenze dai paesi del Centro Africa. Una riapertura dei flussi nel Mediterraneo e dai paesi di origine comporterebbe una ripresa dei flussi dai paesi del Centro Africa e una drammatizzazione ulteriore dei problemi. E non solo quelli legati all’accoglienza nei paesi europei. A partire dall’Italia ovviamente. Un’eventuale azione di forza per sgombrare i campi profughi, concordata in ambito internazionale, allo stato attuale viene esclusa. E ritengo che non verrebbe condivisa nemmeno da coloro che contestano le intese in questione. Nel mentre, una mobilitazione delle istituzioni internazionali rivolta a rimpatriare le persone rinchiuse nei campi profughi distribuiti nel territorio libico è quanto mai doverosa e urgente.