Forse c’è un disegno teorico più ampio e più profondo dietro le quotidiane agitazioni del M5s e gli inseguimenti reciproci con il Pd: lo sforzo per la ricostruzione di una nuova sinistra.

Infatti con la fine della guerra fredda è tramontata l’idea di un cambio complessivo del sistema di produzione che abolisse il capitalismo. Da qui poi si sono anche via via asciugate le istanze socialdemocratiche occidentali che avevano chiesto e ottenuto una parte di redistribuzione del reddito. Esse in passato da un lato avevano sottratto le “masse proletarie” al fascino delle sirene comuniste, dall’altro avevano aumentato il livello di vita di quella classe media diventata la spina dorsale dell’occidente.



La fine dell’alternativa comunista ha anche indebolito il bisogno, da parte classi imprenditrici occidentali, di redistribuzione per ottenere consensi. Si è approfondito il divario sociale e si è affidata tutta la ricerca di adesione politica alla continua ininterrotta crescita economica. Ma una volta che la crescita si interrompe, si spezza il temporaneo patto sociale tra votanti e votati e si sceglie altrove.



Questi sono i temi cari a un neomarxista come Thomas Piketty, ma anche alla Chiesa e alle grandi religioni, che quasi istituzionalmente si preoccupano delle grandi folle di non abbienti.

Forse a questo pensa il guru del Pd Goffredo Bettini, peraltro affascinato e studioso dell’esperienza del partito neo-popolare di Thaksin Shinawatra in Tailandia. Perciò aggrapparsi ai populisti del M5s, rinsaldarli nel Pd e trasformarli in popolari può essere un’idea strategica interessante. Essa cercherebbe di dare nuovo corpo a una classe media in via di estinzione.

Ma questo deve comunque concretizzarsi in qualcosa. Per la Tailandia diventò la Thaksinomics, il piccolo credito concesso ai villaggi che in meno di un decennio fece crescere una classe media con interessi in contrasto con la vecchia borghesia e aristocrazia di Bangkok.



L’idea veniva poi dalla politica della Dc negli anni 50, basata sulla riforma agraria e le cooperative bianche. Cioè la lotta al grande latifondo e lo sprone alla piccola imprenditoria attiva. Insieme a ciò c’è poi la promozione di grandi infrastrutture che creino posti di lavoro e nuove opportunità.

Per ora però né Pd né M5s paiono lavorare in questa direzione. La promozione della piccola impresa è un rischio per chi intraprende: le Pmi possono avere un credito a basso tasso di interesse ma devono comunque restituire quanto concesso. Alcune piccole imprese non ci riescono e falliscono.

Oggi invece la scelta del Movimento e del Pd pare sia semplicemente quella di distribuire elargizioni, come il reddito di cittadinanza, non di dare lavoro per realizzare una strada o aprire un laboratorio artigianale. La distribuzione di elemosine sociali dà un riscontro immediato e certo: io ti do il sussidio, tu mi dai il voto. Si tratta però di un sistema feudale: non dà dignità, che si ottiene con il contributo del lavoro, ma legittima l’idea che paga di più approfittarsi dello Stato che dare un contributo alla comunità.

È una bomba atomica sociale con conseguenze di lungo periodo molto pericolose. Si gettano i semi per un cancro sociale come in alcuni paesi petroliferi, dove un’élite raffinata compra consenso distribuendo prebende a una maggioranza che non deve fare niente e così si abbrutisce. I lavoratori poi sono gli immigrati, cittadini di terza classe.

Si sta andando verso la creazione della stessa stratificazione in Italia, dove i lavori meno nobili sono dati agli immigrati, gli italiani più nobili fanno gli imprenditori e l’ex classe media viene trasformata in mantenuti?

Tali grandi questioni hanno un precipitato politico anche molto semplice e diretto. Il governo chiede e pretende crediti senza condizione dalla Ue, evidentemente per potere soddisfare senza pesi i richiedenti dei redditi di cittadinanza in varia forma e colore.

Offre di salvare la compagnia aerea Alitalia senza un piano di rilancio, che manca anche perché mancano prospettive di una ripresa dei viaggi aerei per i prossimi anni.

Però crea procedure molto difficili per le piccole e medie imprese e si inalbera per la richiesta di crediti di grandi imprese come la Fca (automobili) o Atlantia (autostrade).

Ciò produce una schizofrenia italiana rispetto a paesi petroliferi, come il Venezuela o la Libia. Essi alla fine hanno distribuito denaro proprio, l’Italia invece vuole distribuire denaro non proprio ma della Ue. Qui non si tratta di tagliare ragioni e torti con l’accetta. Se questi fondi vanno a migliorare e risanare la struttura produttiva del paese è una cosa, ma se devono essere spesi per comprare voti in un circolo vizioso di donazioni e servizi parassitari è un’altra cosa.

I pensatori del Pd o del M5s dovranno fare i conti con la realtà che la Ue non può approvare politiche distributive che ammalano sempre di più la struttura produttiva italiana e quindi incancreniscono la stessa Unione.

Bruxelles deve chiedere condizioni al governo italiano come il governo italiano le chiede a Fca, Atlantia e alle piccole imprese. Ciò è per il bene dell’Italia, dell’Europa e del mondo. Se non lo farà aggraverà la posizione italiana nel medio e lungo termine. Se l’Italia chiede condizioni a Fca ma non li offre per sé crea una frattura insanabile al suo esterno e al suo interno.

Idealmente l’Italia dovrebbe offrire un piano di rilancio per ottenere questi crediti, così come Roma può e deve chiederlo a Fca o Atlantia o alle piccole e medie imprese.

Senza un piano di rilancio del paese, al di là del galleggiamento del governo di oggi o dei prossimi mesi, l’Italia è persa. Ma onestamente il governo sembra troppo debole per riuscire a pensare in questi termini.

Forse è questo piano di rilancio che dovrebbe concentrare l’attenzione delle varie entità interessate alla vita dell’Italia come tale – gli alleati, la Ue, la Chiesa e quel poco di Stato profondo che rimane. Questi corpi però oggi sono più che mai distratti da altre priorità – l’epidemia, la tensione politica tra Usa e Cina. Inoltre il dibattito interno è in una situazione di stallo, quindi per ora non si vede una via d’uscita.