Due diversi elementi sembrano garantire la tenuta dell’alleanza tra Pd e Movimento 5 Stelle a dispetto delle tensioni interne che la caratterizzano. All’ineguagliabile capacità di governance del Pd va infatti aggiunta l’assenza di alternative per un movimento come i Cinquestelle, costretto a procedere fino alla fine della legislatura per non incorrere in elezioni anticipate che comporterebbero un drastico dimezzamento della sua rappresentanza parlamentare e la conseguente perdita di influenza nell’elezione del prossimo Presidente della Repubblica.
Tuttavia il vero problema è costituito meno dalla tenuta della coalizione quanto dall’ampiezza dei problemi che sono sul tappeto e dalla crescente inaccettabilità che la tesi generale della “assenza di alternative” finisce con il detenere. Provo ad elencare i problemi partendo dalla fine, cioè dai più immediati.
La pandemia ha costituito un caso emblematico, dove l’evidenza indiscutibile del virus ha comportato delle scelte che, al contrario, sono discutibilissime, come quella della chiusura delle scuole fino a ottobre. Ma lo stesso sta accadendo per l’adesione alle politiche finanziarie che si stanno affermando a Bruxelles, tanto in tema di aiuti economici quanto in quello (mai risolto) delle immigrazioni.
L’essere dinanzi a situazioni di fatto per le quali non esistono alternative riguarda anche fenomeni di più ampia portata: non ci sono, infatti, alternative alla globalizzazione dell’economia mondiale e, a voler guardare più lontano, non ci sono alternative nemmeno alla proliferazione dei “nuovi diritti” che ogni tanto riemerge all’orizzonte (si sta riorganizzando il pugnace gruppetto di lotta all’omofobia) contando sull’assenza di reazione da parte di un’opinione pubblica preoccupata da ben altre emergenze.
Sono problemi diversi, che non hanno nessun rapporto tra loro se non quello di essere tutti dotati di una conclamata assenza di alternative: altrettante scelte obbligate che rendono inutile qualsiasi dibattito. Ciò comporta effetti paradossali per una democrazia, testimoniati dall’insolenza di alcuni consistenti silenzi.
Il modo inaudito con il quale si è archiviata la proposta di sostituire al debito esterno un debito interno che, pur scontando un differenziale dello 0,5%, avrebbe il merito di liberarci da una qualsiasi potenziale manovra da parte di un’Europa che non ci ammira, ne costituisce un tragico esempio. Per settimane si è atteso un dibattito onesto e chiarificatore su questa opzione, chiaramente espressa da personalità autorevoli e competenti (accanto a Giulio Tremonti, primo proponente, si possono aggiungere infatti, tra gli altri, i nomi di Giovanni Bazoli e di Giulio Sapelli). Al dibattito che non c’è mai stato ha fatto seguito un sorprendente silenzio, seguito da un irritante parlar d’altro: come se una simile proposta non dovesse essere degnata della benché minima considerazione.
In pari modo si è atteso invano un franco dibattito sul blocco delle nostre più rilevanti opere pubbliche, già approvate e finanziate, la cui attivazione produrrebbe una spirale virtuosa in grado di ridare fiato a un indotto che resta fermo al palo. E questo dinanzi a una crisi occupazionale pericolosissima che si profila all’orizzonte. Anche in questo caso, alla proposta di riattivazione (cavalcata con entusiasmo anche dentro la compagine di governo da parte di Matteo Renzi) ha fatto seguito un secondo imbarazzante silenzio.
Ancora: si è attesa invano un’analisi sulle responsabilità dei diversi partiti che, per inseguire la corruzione, hanno creato una burocrazia sempre più paralizzante e che adesso appare figlia di nessuno. Una tale burocrazia, che presenta effetti devastanti, non solo continua a ostacolare l’attività di qualsiasi esecutivo (compreso quello attuale), ma paralizza centinaia di amministrazioni locali. La stessa costruzione di un’opera di grande impegno con tempi degni della Baviera, come il nuovo ponte Morandi di Genova, si è dovuta realizzare in deroga alle regole del paralizzante mostro burocratico. Ma anche qui, alla denuncia pressoché corale della burocrazia, ha fatto seguito un imbarazzante silenzio su chi ne siano i responsabili.
Accanto a queste assenze si è assistito a scandalosi incidenti di percorso. Si tratta di episodi che, in altre epoche e con altri governi, avrebbero scatenato delle rivolte di piazza: è il caso delle scarcerazioni di personalità di spicco delle organizzazioni mafiose (pensiamo a cosa sarebbe accaduto se ci fosse stato ancora un vecchio governo Berlusconi o Salvini, per non parlare di un qualsiasi governo Andreotti degli anni Ottanta). Ma si tratta anche della lentezza esasperante con la quale vengono (miserabilmente) rimborsati i professionisti bloccati dal Covid o gli operai costretti alla cassa integrazione, facendo dell’Italia (ancora una volta) il fanalino di coda degli Stati europei.
Infine si tratta anche della confusione sulla stessa emergenza Covid, dove si è oscillato dalle misure draconiane di chiusura anche nelle aree con “contagiati zero” – con danni incalcolabili all’economia di queste regioni – al “liberi tutti” delle movide notturne, con il ritorno delle risse tra alcolizzati dopo la mezzanotte.
Ora non c’è dubbio di come tanti silenzi e tante contraddizioni alimentino la frustrazione di un’opinione pubblica che, dopo essersi vista sottratto il potere di tornare alle urne e subire una maggioranza parlamentare che non corrisponde a quella che c’è nel paese, si ritrova a essere narcotizzata da una comunicazione invasiva (mai visti così tanti interventi a reti unificate di un Presidente del Consiglio) così come da una strategia comunicativa che anziché rispondere ai gravi problemi appena elencati, come sarebbe il caso in qualsiasi democrazia civile, annuncia costantemente e con grande risonanza mediatica l’impegno ad approntare grandi progetti di rinascita, ignorando l’incapacità dimostrata nell’attivare anche quelli ben più modesti, dettati dall’emergenza sanitaria prima ed economica poi.
Retorica dell’unità e ridondanza mediatica finiscono così per costituire l’unica risposta reale ai problemi provocati da un’emergenza sanitaria che sta per essere sorpassata da un vero e proprio tsunami economico.
Ora non c’è nulla di più grave che mantenere un simile stato di fatto agitando fantasmi anziché spiegando le scelte. Così, dopo aver sottolineato retoricamente il pericolo di un “ritorno al fascismo”, facendo apparire come giganti i movimenti-formica dell’estrema destra, adesso è il momento della demonizzazione dell’avversario “populista”: una demonizzazione tanto più insopportabile quanto più si accompagna ai silenzi su problemi ben meno immaginari ma drammaticamente reali, che vanno dalla paralisi operativa del nostro sistema burocratico all’incapacità di argomentare scelte più che discutibili sul piano finanziario, nonché al dare conto degli incidenti scandalosi sul piano amministrativo. Da nessuna parte sembra emergere l’idea che la protesta rischi di diventare tanto più forte ed estesa quanto più la compagine di governo continui a definire questi problemi come minimi o addirittura inesistenti.
Durerà la coalizione Pd-Cinquestelle? Certamente sì: molto meglio galleggiare sulla crisi, nell’attesa che Salvini perda ulteriori punti percentuali e la coalizione di centro-destra, rinviata all’opposizione, si logori nelle proprie incrinature, piuttosto che perdere il potere di eleggere il prossimo Presidente della Repubblica.
A rimetterci è la democrazia, con il partito degli indecisi e degli incerti che cresce e con esso la frattura sociale di un Paese che si riconosce sempre meno in chi lo governa. Soprattutto a partire dal momento che, anziché argomentare le proprie scelte e dibattere consapevolmente le proposte sul tappeto, si limita, da un lato, a demonizzare l’avversario con un’etichetta di comodo e, dall’altro, a dire che “non ci sono alternative”.