Il Presidente della Confindustria Bonomi ha lanciato la proposta di un Patto per l’Italia per dare vita a un programma di ripresa dell’economia e dell’occupazione condiviso tra il gGoverno e le rappresentanze sociali. Una traduzione concreta dell’idea di democrazia negoziale, fondata sulla relazione e sul confronto tra le autorità elette dal popolo e le rappresentanze delle associazioni del mondo del lavoro, che ha rappresentato il piatto forte della sua recente elezione a Presidente della più grande confederazione dei datori di lavoro.



La proposta ha riscontrato l’adesione convinta della Cisl e della Uil, la diffidenza della Cgil, il silenzio delle altre Confederazioni dei datori di lavoro, ma soprattutto un malcelato fastidio dalle forze politiche che sostengono l’esecutivo, orientate a evitare pericolose interferenze nella gestione dei dissensi interni, e che hanno portato il Governo a preferire la scelta di mediare in presa diretta l’elargizione delle risorse tra le diverse istanze rivendicative avanzate dalle singole rappresentanze sociali. Una scelta che rinuncia in partenza all’obiettivo di elaborare un programma condiviso per l’utilizzo delle risorse rese disponibili dall’Unione europea, che si sta trasformando in una sorta di sommatoria dei progetti elaborati all’interno dei singoli ministeri. Accompagnati, come sempre, dalla pretesa di veicolare con nuove norme, vincoli, tasse, incentivi e bonus i comportamenti degli attori economici e sociali.



Il metodo della democrazia negoziale proposto dal Presidente della Confindustria però ha un senso se dimostra di essere in grado di mettere in campo un originale, e condiviso, contributo delle parti sociali per migliorare la qualità e l’efficacia degli interventi. Senza diventare il veicolo per affermare il ruolo per imporre una sorta di veto per le scelte di politica economica da parte di alcuni soggetti privilegiati in una sorta di antistorica riedizione del modello della concertazione dell’ultima decade dello scorso secolo.

Alla luce di quanto avvenuto nei tempi recenti, i punti di partenza non sono confortanti. Sui contenuti dei principali interventi finalizzati a contenere gli effetti della crisi, in particolare il blocco dei licenziamenti e l’utilizzo delle casse integrazioni, le distanze tra le rappresentanze sindacali e quelle datoriali sono sembrate siderali. Sul rinnovo dei contratti nazionali è aperta una feroce polemica tra Confindustria e le tre principali Confederazioni italiane. E l’oggetto delle polemiche riguarda principalmente il futuro della contrattazione collettiva nazionale. Ma quello che preoccupa è la mancata focalizzazione su quelli che dovrebbero essere gli obiettivi principali da perseguire. In particolare, su come affrontare le fratture economiche e sociali, di carattere territoriale, intergenerazionale e di genere, che si stanno ulteriormente accentuando per effetto della crisi economica.



Queste criticità non si possono gestire con il mero assemblaggio di ammortizzatori, incentivi e buoni propositi astratti. Ma con una mobilitazione delle risorse, le innovazioni tecnologiche e organizzative, i nuovi investimenti nelle infrastrutture e sulle risorse umane. In questa direzione i ritardi sono evidenti e rilevanti. La relazioni industriali, le politiche del lavoro e del welfare continuano a essere declinate sulla base delle caratteristiche dei settori manifatturieri e delle norme che regolano i rapporti di lavoro. Delle organizzazioni del lavoro consolidate, che possono subire contrazioni o espansioni in relazione ai cicli economici e alle innovazioni tecnologiche, ma che lasciano comunque il perno delle tutele centrate soprattutto a tutelare il rapporto di lavoro dipendente e a tempo indeterminato. Questa condizione è ampiamente minoritaria nel tessuto produttivo, per l’ impatto dei comparti dei servizi, che nella stragrande parte sono caratterizzati da un elevato grado di flessibilità nel rapporto con i clienti e gli utenti, dalla stagionalità delle produzioni e dei consumi, da una rilevantissima mobilità del lavoro che riguarda anche i rapporti di lavoro a tempo indeterminato.

Sono i numeri del mercato del lavoro italiano a parlare: la media annuale dei 12 milioni di attivazioni e cessazioni dei rapporti di lavoro, 7 milioni dei quali a termine, i 6 milioni di persone che cambiano annualmente datore di lavoro. Rendere sostenibile la mobilità del lavoro, soprattutto nella fase post-Covid, rappresenta il tema centrale delle politiche del lavoro, con l’aggiornamento delle competenze dei lavoratori, con efficaci sistemi di orientamento e di incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro e l’ausilio di ragionevoli sostegni al reddito per le fasi di transizioni tra un’occupazione e un’altra per tutte le tipologie di attività. Impensabile che possa essere gestito nell’ambito di un’amministrazione pubblica come quella italiana e l’utilizzo di qualche migliaio di improvvisati Navigator. Il salto di qualità è possibile se le parti sociali lo assumono e si candidano a diventare il punto di riferimento per far dialogare i servizi di orientamento e i sistemi formativi sulla base dei fabbisogni delle imprese e dei lavoratori.

Il secondo tema centrale da sviluppare riguarda la struttura e i contenuti della contrattazione collettiva. Le dinamiche del mercato del lavoro descritte e le innovazioni digitali non comportano solo problemi, ma rappresentano un potenziale formidabile per il miglioramento della produttività, dei salari, e delle competenze dei lavoratori. Lo sviluppo dello smart working rappresenta solo la punta dell’iceberg di questo potenziale. In particolare, nei comparti dei servizi alle imprese e alle persone dove si concentrano i ritardi del nostro mercato del lavoro, con riflessi negativi sugli equilibri di genere e intergenerazionali. Ma la vera governance di questi processi si attua nelle aziende e nei territori.

Scambiare l’esigenza di decentrare il sistema contrattazione con la riproposizione delle gabbie salariali è una cosa priva di senso. Soprattutto per le aree del Mezzogiorno che registrano un’incidenza del lavoro sommerso tre volte superiore rispetto a quelle del nord e del centro Italia, un rilevante sottoutilizzo delle risorse finanziarie e umane, e una scarsa attrazione di nuova imprenditoria. Il potenziamento dei servizi e delle prestazioni di welfare promosse dalla contrattazione collettiva nelle aziende e nei territori può servire a formare i lavoratori, favorire l’inserimento lavorativo, integrare il reddito, conciliare i carichi di lavoro e famiglia, offrire un contributo essenziale per migliorare la qualità dei servizi sociali.

Il nostro sistema economico non sconta solo i ritardi nell’innovazione delle organizzazioni produttive, ma una grave carenza di quelle innovazioni sociali. Il recupero della centralità delle rappresentanze del mondo del lavoro e dei corpi intermedi non dipenderà dal tasso di riconoscimento rilasciato dai Governi in carica, ma dalla capacità di recuperare culturalmente e operativamente questi ritardi.

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