“Il Signore è una foresta vergine, il Signore è il guardiano della foresta, il Signore è il pasto per il più povero dei poveri, è la porta che accoglie lo straniero”. Con questo inno salmodiante inizia il nuovo lavoro discografico di Paul Simon. L’81enne songwriter americano si rimette in gioco, e qualcuno parla già di testamento musicale, pubblicando “Seven psalms” (“Sette salmi”, appunto) chiarendo già dal titolo le sue intenzioni artistiche, offrendo al suo pubblico di estimatori ancora immenso, non una serie di canzoni ben definite , ma un flusso musicale all’interno di un “concept album” che si dipana in poco più di mezz’ora e che scommette e pretende dall’ascoltatore un’attenzione esclusiva dalla prima all’ultima nota, senza distrazioni, predisponendolo però ad un ascolto, non facile.
Non è più il tempo dei ritornelli semplici ed eterni destinati a coinvolgere e conquistare fin dagli anni ’60 il mondo dei teenager: “Bridge over troubled water”, “The sound of silence”, “The boxer”, “Mrs Robinson”, e tantissimi altri gioielli musicali impreziositi dall’accompagnamento vocale di Art Garfunkel. Non è più il tempo degli anni ’70 in solitaria, nei quali Simon sforna altri caposaldi del suo particolare soft-rock tipicamente newyorchese. Non è più il tempo degli anni ’80, iniziati con la parentesi illusoria per il ritorno del duo nel travolgente concerto al Central Park, saranno invece, sorprendentemente, gli anni dell’invenzione della world music sudafricana di “Graceland”.
E, fortunatamente, non è più neanche il tempo del dimenticabile ultimo trentennio, testimone di centellinate e confuse novità, spesso esangui e faticose, quasi la conferma di una vena creativa ormai prosciugata, con il carico di un terribile flop teatrale (chi si ricorda “Songs from the capeman” nel 1997?).
Nonostante tutto ciò, Simon ha continuato ad essere il gran protagonista di tour celebrativi durante i quali il suo pubblico non ha mai mancato di sostenerlo sulle ali della nostalgia e dell’alta qualità e professionalità dell’offerta live. E se qualcuno se li è persi basta segnalare gli ultimi titoli in cd: “Live in New York City” (2012) e “The concert in Hyde Park” (2017) con DVD annessi. Nel 2018, il piccolo genio di Manhattan, ha deciso di ritirarsi dagli eventi live, rassegnato all’età che avanzava.
Poi il lockdown per il Covid: giorni di clausura forzata e la voglia incontenibile di comunicare il punto definitivo alla sua esistenza ottuogenaria di artista e uomo. Lui, ebreo americano, grande narratore di piccole storie quotidiane, non ha mai avuto la visionarietà apocalittica di Bob Dylan (stessa età), o la mistica sofferta di Leonard Cohen (più grande di lui di un lustro e già arrivato nel Paradiso degli artisti). Ora Simon si trova a fare i conti con l’ultima parte della sua vita e a confrontarsi con il senso della morte terrena, che speriamo, per lui ancora ben lontana.
È ancora l’autore che introduce: “L’album è ispirato ai salmi di Davide. E’ nato in sogno nel 2019 ed è stato composto nelle ore notturne. Cerco sempre di creare una sorta di flusso che ti faccia entrare in un sogno. E se sei disposto ad entrare in una dimensione onirica, sei anche disposto a lasciar perdere ogni giudizio. Questo album è una discussione con me stesso sul credere o meno”.
E le parole che costellano questo lavoro confermano la sua genesi: “Sto pensando alla grande migrazione”; “Ho le mie ragioni per dubitare / una luce bianca mitiga il dolore” “Due miliardi di battiti di cuore e basta / o tutto ricomincia di nuovo”.
Ascolto non facile, dicevamo. Sette canzoni (ma considerarle tali, forse, è un eufemismo), accenni embrionali e minimalissimi: una chitarra dai brillanti arpeggi, come una cascata di note; una voce, inconfondibile, certo, ma pericolosamente in equilibrio sul crinale dell’inespressività, quasi da tono retto, un gregoriano del 21° secolo. Ma se avrete la pazienza e la corretta disposizione all’ascolto, senza disattenzioni e nel silenzio totale, ecco che vi si aprirà un’esperienza musicale che in questi tempi così schizofrenici e superficiali difficilmente si può incontrare.
In questi casi si dice “preghiera laica”, dove laica è sinonimo di neutra: che sciocchezza! Diceva Bill Congdon, pittore americano che visse tutta la maturità della sua vita in un monastero benedettino alle porte di Milano: “Se una canzone non è una finestra aperta al Mistero, è solo rumore”, Simon (a cui nel finale del disco si aggiunge la moglie Edie Brickell) nel brano “Wait” (“Aspetto”) canta: “La vita è una meteora / lascia che i tuoi occhi indaghino / il Paradiso è meraviglioso / è praticamente casa / ragazzi siate pronti / è il tempo del ritorno a casa / Amen”.
Nel primo album di Simon & Garfunkel, “Wednesday morning, 3 a.m.”, anno 1964, i due giovanissimi amici vocalizzavano un inno latino, “Benedictus”. 60 anni dopo, Paul Simon conclude con un “Amen”.
È un cerchio che si chiude?
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