Una cosa che solo gli addetti ai lavori sono tenuti a sapere è che in Italia, primo caso storicamente parlando (poi imitato da quasi tutta Europa), i diritti d’autore scadono dopo settant’anni dalla morte dell’autore. Questo significa che nessuno può (senza pagare i diritti a un erede) pubblicare un libro, o cantare una canzone, di un autore se questo non è scomparso da almeno settanta anni.



La motivazione è ridicola: poiché i precedenti cinquant’anni intendevano garantire i diritti a due generazioni di eredi, essendosi allungata l’aspettativa di vita, si è allungato anche il periodo dei diritti garantiti. L’allungamento avvenne nel 1996 (governo Dini) è qualcuno ha forse malignamente notato che scadevano in quell’anno i diritti di Pirandello, detenuti dalla Mondatori e a tutt’oggi abbastanza remunerativi.



Chiacchiere o meno che siano, un periodo così lungo è assurdo e rischia di bloccare la diffusione di opere per mera avidità di qualche oscuro erede, come spesso accade, dato che i familiari sono frequentemente d’ostacolo coi loro veti alla possibilità di utilizzare pubblicamente opere d’arte. Viene anche da chiedersi che merito abbiano nipoti e pronipoti di artisti, o case editrici lontane decenni dal primo contratto, stipulato con l’autore in vita. Le opere d’arte sono un patrimonio pubblico, di un popolo e di tutta l’umanità. Prima se ne libera l’utilizzo, meglio è per tutti.



Il benefico effetto del “libera tutti” dei diritti d’autore lo possiamo sperimentare quest’anno con le opere di Cesare Pavese, che essendo scomparso suicida nel 1950 è dallo scorso 31 dicembre a disposizione gratuita di tutti: la deliziosa edizione di Lavorare stanca, libro d’esordio dell’autore piemontese, da parte di Interno Poesia, fresco e valido editore pugliese. La notizia confortante è che si tratta di un giovane editore, Andrea Cati, che supera d’un balzo tante chiacchiere sul far incontrare ai giovani la tradizione letteraria e propone, rischiando di suo, opere come questa di capitale importanza.

Lavorare stanca, oltre ad essere il libro con cui si inaugura il prodigioso percorso letterario di Pavese, è anche l’unico di poesia pubblicato in vita dall’autore. Le altre poesie, quelle di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi infatti, uscirono postume. Quando fu pubblicato, Pavese era al confino: ricevette la cassa coi libri a Brancaleone Calabro, dove il regime fascista l’aveva sbattuto, tra il 1935 e il 1936. In riva allo Ionio scriverà diverse nuove poesie, aggiunte alla prima stesura del libro, che completeranno l’opera nell’edizione e definitiva del 1943, a cui questa fa riferimento. Alberto Bretoni, docente dell’Università di Bologna e poeta egli stesso, ne firma la curatela e ci ricorda l’originalità, praticamente unica, di questo libro, fatto di poesie-racconto, in controtendenza rispetto alla tradizione poetica novecentesca italiana, praticamente schiacciata verso un’unica forma, quella della lirica (infatti oggi, per noi, poesia e lirica sono sinonimi).

Le poesie-racconto di Pavese sono anche il suo romanzo di formazione. Nella prima versione del libro, quella che l’autore ricevette al confino, sono molto importanti la prima e l’ultima poesia. Nella prima ci viene raccontata una passeggiata sulle colline delle Langhe, che il protagonista-narratore compie assieme al cugino grande, tornato dai mari del Sud (questo il titolo). Si ripete qui una forma di antica tradizione: un grande, un maestro, una guida che accompagna un giovane a salire un’altezza, a guardare in alto. Come non pensare al momento di crisi in cui Dante, all’inizio della Commedia, incontra Virgilio, o alla salita del monte Ventoso che Petrarca compie col fratello? Col primo inizia il viaggio più straordinario della letteratura mondiale, col secondo inizia probabilmente l’umanesimo.

Lo stesso fa Pavese, che all’inizio di tutto il suo viaggio, nella primissima poesia, si fa accompagnare da una guida, uno più grande. Nell’ultima poesia di Lavorare stanca, parallelamente, ci viene raccontato di un ritorno: il ragazzo, dopo mille avventure, torna alla sua città e ci dice: “val la pena tornare, magari diverso”. Cioè cresciuto, diventato grande. Ecco cos’è il viaggio della poesia per Pavese. D’altronde proprio lui, come citazione iniziale, aveva posto sul suo ultimo romanzo La luna e i falò una frase di Shakespeare: “Ripeness is all”. “La maturazione (il diventare se stessi, adulti) è tutto”. Inizio e fine di questo libro, come di tutto l’opera di Pavese è questo cercare e diventare se stessi. Fallire in questo è il rischio più grande dell’esistenza, che le fa perdere senso e valore, fino a pensare che non valga la pena più di vivere.

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