È forse sempre più attuale, oggi, mentre la vita diventa estemporanea, fugace, apparente, la proposta di un “vivere” che esige esperienza, attraversamento, ricerca, rischio e perizia. “Il mestiere di vivere” in cui Cesare Pavese mette a nudo la propria anima in un tragitto impervio e sorprendente, prospetta l’occasione per addentrarsi nel proprio vissuto, scoprirne una profondità impensata o inconsapevolmente emarginata dai propri pensieri.
Il libro, nato come diario scritto dal 1935 al 1950, raccoglie stati d’animo, intuizioni, riflessioni sul rapporto con il reale avvertito dall’autore sempre come implicazione urgente e esigente, carico di domande appassionate e aneliti irriducibili. Lo stesso impegno letterario è investito della medesima tensione ben oltre le conferme derivanti dal successo: “Che qualcuna delle ultime poesie sia convincente, non toglie importanza al fatto che le compongo con sempre maggiore indifferenza e riluttanza” annota Pavese nella prima pagina del diario (6 ottobre 1935, anno di confino a Brancaleone Calabro) indicando l’urgenza di nuove prospettive, “di nuove cose da dire e quindi nuove forme da forgiare. Poiché – precisa – la tensione alla poesia è data al suo inizio dall’ansia dì realtà spirituali ignote, presentite come possibili”.
La novità per Pavese non è mai solo il parto di un ingegno, ma si manifesta nel riconoscimento di qualcosa di debordante e sorprendente nel suo accadere. “Ci vuole un nuovo punto di partenza… un nuovo frutto che sappia di ignoto, di innesto inaudito”. Questa febbre di ricerca investe comunque un reale sperimentabile: “Non pretendere mai di fare il salto nell’ignoto, di rinascere di colpo un mattino… poiché, che cos’ha l’uomo di proprio, di vissuto, se non ciò ch’è appunto già vissuto? Ma tenersi in equilibrio, perché che cos’ha l’uomo da vivere, se non appunto ciò che ancora non vive?”(17 febbraio 1936).
C’è sempre un oltre, una profondità insondata, che muove e commuove producendo un urto, un sobbalzo del cuore che scardina pensieri abituali, la conformità al quieto vivere. Nell’arte poetica come in ogni altro frangente della vita, fra le contraddizioni, la sete d’amore inestinguibile, il senso di una mancanza e di fallimento, Pavese raccoglie fino al limite estremo le sfide esistenziali e le appunta prospettando, nello stesso diario, un’unitarietà del proprio percorso umano: “C’è una fiducia metafisica in questo sperare che la successione psicologica dei tuoi pensieri si configuri a costruzione” (22 febbraio 1940). In effetti fra gli stati d’animo e i relativi rilievi, a volte acutamente dissonanti, che si susseguono in giorni e date diverse, assume prevalente continuità la straordinaria intensità del vivere riconosciuto per il dono e la gratuità che porta anche nelle sue pieghe più amare e buie attraversate spesso dal cancro della delusione irrimediabile e definitiva.
Anche il successo e i riconoscimenti più ambiti non alleviano la pena di una sete d’infinito contraddetta da un limite invalicabile: “A Roma, apoteosi. E con questo?” annota il 14 luglio 1950 a proposito del Premio Strega da poco ricevuto. Del resto, proprio l’anelito irriducibile all’infinito, porta a misurare con spietato realismo l’irrimediabile sentimento di frustrazione: l’insoddisfazione che attanaglia gli istanti, la ferita per l’impotenza sessuale che diventa irremovibile macigno, insopportabile angoscia, è materia incandescente gettata sulle pagine come una sfida tagliente. Lo stesso suicidio, premeditato da una vita, non sfugge al travaglio lucido della complessità inestricabile e misteriosa di chi vive assaporando ogni attimo, ogni decisione: “Eppure non riesco a pensare una volta alla morte senza tremare a questa idea… sarà un fatto naturale come il cadere della pioggia. E a questo non mi rassegno: perché non si cerca la morte volontaria, che sia affermazione di libera scelta?… Perché? Per questo. Si rimanda sempre la decisione sapendo – sperando – che un altro giorno, un’altra ora di vita potrebbe essere affermazione, espressione di un’ulteriore volontà che, scegliendo la morte, escluderemmo”. Così scriveva nel 1937 ( 29 novembre) a distanza di anni dal tragico gesto che avrebbe attuato fra il 26 e 27 agosto 1950.
L’attesa di un altro giorno, un’altra ora… Continua ad essere questa attesa il filo luminoso da rintracciare oggi come una nuova ispirazione, come una domanda sommersa da riaprire, un desiderio sepolto da risvegliare sempre, ad ogni istante.
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