Elly Schlein sottoscriverà i referendum presentati dalla Cgil. Polonio, il cortigiano di Elsinore, commenterebbe così questa decisione: c’è del metodo in quella follia. Infatti, la mossa della segretaria antipartito somiglia, in sedicesimo, alla decisione assunta da Meloni di candidarsi in tutte le circoscrizioni come Giorgia. La Premier, infatti, gioca in questa maniera una partita solitaria non solo nei confronti dei partiti alleati, ma anche del suo partito allo scopo di ricordare ai suoi colonnelli che senza di lei non sarebbero al Governo e in maggioranza nel paese. Infine, lo slogan “vota Giorgia” potrebbe divenire una sorta di prova generale di un referendum confermativo sul premierato. Come si riporta questo calcolo nella strategia di Elly? La Segretaria, con la scusa della coerenza (uscì dal partito quando venne approvato il Jobs Act e si rese protagonista di “occupay Pd”), in realtà vuole dimostrare che il partito in cui è entrata non è più quello da cui era uscita. Per dimostrare che il partito è cambiato deve vincere con i militanti il braccio di ferro che non le è riuscito nella direzione: quello di prendere ufficialmente posizione a favore dei referendum.



I nostalgici dei tempi di Renzi glielo hanno impedito? Lei dimostrerà che saranno tanti a seguire il suo esempio spiegando le vele al vento dell’abiura. Certo non sarà facile fare un conteggio preciso di quanti dem si recheranno ai tavoli di Landini. Basterà schedare i gruppi dirigenti a livello nazionale e nel territorio chiedendo loro di pronunciarsi. Per sottoscrivere un modulo di un referendum non è prevista la segretezza, occorre metterci la faccia e la firma. Ed è possibile controllare puntigliosamente chi l’ha fatto e chi no.



A Elly non hanno consentito di candidarsi in tutte le circoscrizioni e di sfoggiare il suo cognome sulla scheda, impedendole in questo modo ogni possibile confronto con la Premier che gioca su di un campo più grande. La sola possibilità che le rimane gliel’ha fornita la Cgil, dandole modo di selezionare, attraverso la consultazione dei moduli d’ordinanza i fedeli, i rassegnati, gli oppositori irriducibili. Poi, si sa, una mano lava l’altra.

Così in tanti dopo la firma sui referendum (la più importante è quella per l’abrogazione del contratto a tutele crescenti), si recheranno al tavolino dove, come meno sfarzo, si raccolgono le firme sul progetto di legge di iniziativa popolare per l’introduzione del salario minimo. In questo fiorire di iniziative di redenzione di una sinistra che – a dire di Schlein e di Landini – aveva smarrito la via maestra, è piovuto come una manna dal cielo il rapporto Ocse sulle retribuzioni, che ne denuncia la stagnazione tanto da affermare che era migliore la situazione del 1990.



Tra il 1990 e il 2020 lʼItalia è lʼunico Paese dellʼUnione europea ad aver fatto registrare una variazione negativa dei salari reali. Pesante la perdita anche se si confrontano le retribuzioni medie di oggi in Italia con quelle del 2008, anno della crisi finanziaria che travolse il sistema bancario americano. Analizzando, invece, il periodo tra il 2019 e il 2022, il salario medio annuo di ogni lavoratore italiano è diminuito di circa mille euro. In altri termini: se nel 2019 lo stipendio medio era di circa 43mila euro, nel 2022 è sceso a 42mila euro. Nel triennio quindi l’Italia ha registrato una diminuzione complessiva del 3,4% nei salari. Tutto questo contrasta fortemente con la crescita del 32,5% registrata negli altri Paesi dell’area Ocse.

Come sempre si denuncia il peccato ma non il peccatore. Alla stagnazione salariale corrisponde la problematica della contenuta crescita della produttività che rappresenta ormai un aspetto strutturale delle economie occidentali, ma soprattutto della nostra economia. Dal Dopoguerra fino agli anni Settanta la crescita della produttività in Italia è stata più sostenuta della media europea. A partire dal 2000, invece, l’andamento è stato pressoché stazionario, mentre quello delle principali economie del G7 ha continuato a crescere, segnando una distanza massima raggiunta nel 2021 di 23,7 punti percentuali.

Un’altra criticità risiede nella struttura della contrattazione collettiva che in Italia continua a essere centralizzata e cioè imperniata sul primo livello (il contratto nazionale di categoria). Il doppio doppio livello di contrattazione collettiva zoppica a scapito del livello decentrato. Così se il perno della struttura contrattuale sta nella contrattazione nazionale di categoria (anche i sindacati hanno compiuto un passo indietro in questa direzione dopo aver tentato di gettare il cuore oltre l’ostacolo con la contrattazione decentrata e di prossimità che è anche favorita a livello fiscale se rivolta a certi obiettivi di produttività e di partecipazione) è evidente che la rivisitazione del salario si effettua a scadenze troppo lunghe ragguagliate alla decorrenza e scadenza dei contratti stessi e ai tempi necessari al loro rinnovo.

Sappiamo che, mediamente, il tempo della vacanza contrattuale è pari a 32 mesi, in taluni settori trascorrono anni mentre nel frattempo il costo della vita subisce variazioni in tempi più ravvicinati che rendono inadeguato l’ammontare delle retribuzioni concordate in precedenza nel contesto di condizioni diverse. Basti pensare agli sconvolgimenti intervenuti negli ultimi anni con la crisi pandemica prima e la guerra in Europa, poi, con tutte le conseguenze sui costi delle materie prime e delle forniture energetiche e sul commercio internazionale. Vi è poi la questione del cuneo fiscale e contributivo, a riduzione del quale sono stati effettuati, benché transitori, interventi importanti, ma che resta più alto che nell’Area Euro per tutti i lavoratori tranne che per i single a basso reddito, per i quali il cuneo fiscale è in linea con l’Area Euro e risulterebbe addirittura inferiore includendo il Bonus 80 euro con cui Matteo Renzi stupì il Paese prima di una elezione del Parlamento europeo.

Quanto agli effetti delle politiche pubbliche sui redditi, secondo l’autorevole Upb la decontribuzione garantisce un incremento percentuale dei redditi più elevato per i lavoratori dipendenti a tempo parziale rispetto ai lavoratori a tempo pieno, che vengono invece premiati maggiormente dalla riforma dell’Irpef. Va infine osservato che la decontribuzione garantisce un sostegno sensibilmente maggiore ai più giovani, soprattutto nella classe fino a 35 anni. Benché i differenziali siano molto meno pronunciati, i giovani risultano più avvantaggiati in termini relativi anche nel caso della riforma Irpef. La diversa portata redistributiva dei due istituti si manifesta, anche se in misura appena percettibile, nei differenziali per genere che vedono le donne premiate in termini di incidenza del beneficio.

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