Enrico Letta ha capito da giorni che si poteva solo salvare il salvabile. E che lui era in procinto di chiudere la parentesi alla guida del Pd. Porta a casa una gestione ordinata ed efficace come supporto di Draghi, in una fase delicata per il Paese, ma anche la prova che la battaglia per i voti non è quello in cui eccelle. Non ha l’appeal dei populisti e neppure le abilità di cucitore politico dei vecchi democristiani. E se la prima mancanza è anche una dote, in certo senso, la sua incapacità di chiudere un accordo ampio per presentare una coalizione in grado con di competere è forse la sua mancanza più grave.
Si è contornato di alleati minori che hanno preso più linfa di quanta ne abbiano portata. A partire da Di Maio, ad oggi non rieletto. Non avere trovato una intesa con Conte, subire il ripensamento di Calenda, sono fatti che testimoniano la sua impossibilità a svolgere la funzione di leader di una coalizione che non ha creato.
Ma è il sistema Pd ad essere in crisi. I governatori del Sud, che hanno fatto incetta di candidati, vedono i 5 Stelle primo partito in Campania e Puglia, e spesso la coalizione del Pd è al terzo posto nel gradimento degli elettori quasi ovunque nel Mezzogiorno. La macchina del partito, gli amministrati locali, in pratica, non hanno svolto alcuna funzione in quelle aree e le correnti ormai sono allo sbando. Nella foga di piazzare i cosiddetti leader nazionali il Pd ha sacrificato esponenti locali validi.
Insomma la residua cinghia che legava il Nazareno ai territori si è spezzata. E questo apre uno scenario di crisi profonda del modello e mette in discussione l’intero gruppo dirigente. Incapace come collettivo, inoltre, di guidare Letta ad un risultato migliore del 2018 (fatto dall’odiato Renzi) o a costringere il segretario a trovare l’accordo con Conte, che avrebbe portato ad una partita più equilibrata.
Conte dal canto suo si ritrova un gruppo di fedelissimi in Parlamento grazie alla tattica della rottura di luglio con Draghi, ha girato il Paese, soprattuto nelle aree depresse, promettendo miliardi di euro di spese, sapendo bene che non avrebbe governato. L’elettorato grillino (dimezzato ma non smarrito del tutto) gli ha affidato, nella sua parte più popolare, la missione di continuare a lottare per i sussidi, il reddito di cittadinanza, le prebende e per tutto ciò che è gratuito. Un consenso che gli viene in larga parte dalle centinaia di migliaia di carte di credito ricaricate mensilmente come reddito di cittadinanza e dalla figura paternalistica costruita ai tempi dei lockdown. Ora si appresta all’opposizione senza potersi dire equidistante dal destra e sinistra. La Meloni ha annunciato che smonterà il reddito di cittadinanza, e questo le è costato elettoralmente dove i 5 Stelle hanno dilagato.
Conte, si badi, ha governato sempre in questi cinque anni, fare politica da minoranza è faticoso e soprattuto opporsi al centrodestra lo porterà inevitabilmente a contatto con la sinistra e con quel Pd che dovrà rinnovare la leadership. In questo spazio ristretto, complice anche il numero esiguo di eletti, è possibile che le strade dei due maggiori partiti di opposizione si intreccino.
Certo Conte non avrà più a fargli ombra la vecchia guardia degli ex ragazzi di Grillo, ormai fuori dai giochi, e dovrà imparare a svolgere un ruolo di opposizione che ha delle insidie e richiede una costanza nel ruolo diversa dall’impegno di Governo. E da quella posizione dovrà comprendere che non potrà attuare nessun programma, mantenere nessuna promessa, spendere alcun denaro pubblico. Uno schema per lui nuovo. Così come nuova sarà la leadership del Pd. E forse, queste novità potranno portare a superare gli screzi personali e fare assieme una guerra di trincea. Partendo da lì, da una militanza attiva all’opposizione, potrebbero accorgersi che hanno la forza di contrastare il centrodestra in futuro solo se sapranno stare assieme.
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