La lettera con la quale Benedetto XVI risponde al rapporto sugli abusi sessuali commissionato dalle arcidiocesi di Monaco e Frisinga segna un ulteriore passo avanti per tutta la Chiesa cattolica nel drammatico processo di rielaborazione e assunzione di responsabilità circa quanto accaduto in seno al proprio clero nella seconda parte del XX secolo.
È ragionevole parlare di “ulteriore passo avanti” per almeno tre motivi. Anzitutto un motivo “ad extra”: il pontefice emerito si dice stupito che la mancata conferma di una sua partecipazione come arcivescovo di Monaco alla riunione in cui si stabilì di destinare semplicemente ad altre mansioni pastorali uno dei sacerdoti autore degli abusi sia stata malevolmente interpretata come volontaria e fraudolenta.
La Chiesa, è come se dicesse Ratzinger, non ha alcun interesse a nascondere alcunché, non è un potere mondano che si deve difendere con le armi dell’astuzia e della menzogna, ma – se vuole uscire da tutta questa vicenda – deve avere il coraggio di dire la verità, una verità che non possiede, che non gestisce, che non la auto-assolve, ma che la precede e la interroga.
E qui il predecessore di Francesco ci porta dentro le sfumature della sua coscienza, rivelando che egli stesso si esamina per capire la verità, i reali limiti delle proprie responsabilità, poiché quanto è accaduto non è qualcosa di delineato e di nitido, ma coinvolge le persone a tanti livelli, in pensieri, parole, opere e omissioni. Benedetto pare tuttavia evidenziare come nella malafede dei suoi interlocutori si nasconda una sentenza già data, un pregiudizio perverso che non aspetta altro che essere confermato e ammesso.
Ed è a causa di questo motivo che Ratzinger delinea un secondo passo avanti per tutti nel ricordare indirettamente ai propri interlocutori, e “ad intra” a tutta la Chiesa, che esiste un giudizio di cui la comunità dei credenti non deve mai dimenticarsi, il giudizio di Dio.
Troppe volte il tema degli abusi, all’interno della Chiesa, viene trattato in ragione della credibilità esterna della Chiesa o in virtù delle denunce, dei reati o dei risarcimenti. Il Papa emerito ci ricorda che la questione degli abusi è anzitutto un peccato, una colpa grandissima che – come tutte le colpe – chiede lo sguardo di Dio. Quante volte manca Dio dal nostro orizzonte, quante volte manca il Suo giudizio che è amore, che è misericordia, che è serietà profonda verso il nostro cuore.
E queste non sono parole per i tribunali, ai quali ovviamente interessa altro, e neppure per i giornalisti, che celano racconti malevoli difficili da mitigare; non sono parole che giustificano o che eludono il lavoro che aspetta tutta la comunità e che è ancora da fare, ma sono parole per la Chiesa, per i credenti, perché – presi dall’adempiere ogni giustizia – non si dimentichino della giustizia di Dio. Una giustizia che noi non conosciamo, che imploriamo, che è Presenza e rapporto che ci libera, anche dalle brutte figure, anche dall’orrore che siamo, anche dal nostro stesso peccato.
Infine il terzo passo avanti che apre questa lettera pare rispondere involontariamente alle conclusioni dei vescovi tedeschi che, per bocca del cardinal Marx, chiedono al Papa di rivedere la prassi del celibato ecclesiastico come antidoto – questo è il non detto della dichiarazione – alla questione degli abusi. L’anziano abitante del monastero vaticano ribadisce che una questione c’è, esiste, ma che tale questione non la si affronta con la revisione delle strutture, bensì con una solidità che – citiamo testualmente – “nasce da una comunione di vita” che ci sostiene. Il rischio del male è che lasci chi lo vive, sia come carnefice che come vittima, sempre più solo. È questa solitudine che ci rende ostaggio delle mode, degli impulsi, delle grottesche manovre che architettiamo per salvarci. Raccontandoci della sua vita da monaco vaticano, Benedetto XVI ci mostra come la questione degli abusi sia la questione della solitudine, come sia quello il punto focale per giudicare quanto avvenuto, purificarsi e riacquistare solidità. Perché, come diceva sant’Agostino, c’è qualcosa di più tragico di non avere una speranza: averla incontrata e non avere nessuno con cui cominciare a viverla.
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