La freschezza di Charles Péguy 150 anni dopo la sua nascita è uno di quei miracoli che restano spesso nascosti. Si aprono squarci quando qualche sua frase o qualche suo verso o qualcuna delle sue osservazioni, magneticamente ripetute, piomba ad illuminare l’orizzonte. E allora, per parlare del bellissimo numero della rivista Studium (3/2023) su questo grande poeta e intellettuale francese, a cura del professor Massimo Borghesi e con i contributi di Ubaldo Casotto, Pigi Colognesi, Giuseppe Frangi, Agostino Molteni, Antonio Socci, Giaime Rodano, Pina Baglioni e Alessandro Banfi, partiamo da alcuni versi di Eve, la sua ultima opera: “Non mi piacciono i beati/ quelli che credono di essere della grazia/ perché non hanno forza per essere della natura./ Quelli che credono di essere nell’eterno/ perché non hanno il coraggio di essere nel tempo./ Quelli che credono di essere con Dio perché non stanno con le persone./ Quelli che credono di amare Dio perché non amano nessuno”.
Le parole chiave ci sono tutte e sono parole che richiamano dialettiche molto attuali per tutti gli uomini e per tutti i credenti: la natura e la sua tensione con la grazia. L’eterno e il suo rapporto col tempo. Il proprio io e gli altri. E poi l’amore e il non amore. Da poeta, Péguy scava nei termini che usa, restituendo loro profondità e senso. È stato l’intellettuale cattolico-comunista Giaime Rodano, figlio di Franco, recentemente scomparso, così presente in questo numero di Studium, a sottolineare questa citazione da Eve, peraltro riportata all’attenzione di tutti da papa Francesco nel Sinodo amazzonico. Rodano racconta di essersi interessato all’opera di Charles Péguy per aver ascoltato don Giuseppe De Luca che ne discuteva con Palmiro Togliatti, a casa sua. In un secondo tempo, chiesto un chiarimento al padre, lui rispose dicendo che Péguy era uno dei suoi autori preferiti. Racconta ancora Rodano: “Felice Balbo diceva, forzando un po’ il discorso ma i tempi erano quelli, che Péguy era un socialista cristiano”.
In realtà il poeta francese tende a rompere gli schemi. È cristiano e cattolico, ma ante litteram è un cristiano in uscita. Come scrive di lui Hans Urs von Balthasar, citato nella bella Introduzione al dossier da Borghesi: “Egli è indivisibile e sta perciò dentro e fuori la chiesa, è la chiesa in partibus infidelium, dunque là dove essa deve essere. Egli lo è grazie al suo radicamento nel profondo dove mondo e chiesa, mondo e grazia si incontrano e si penetrano fino a rendersi indistinguibili”. Ecco il fascino trasversale, la fortuna alterna di Péguy che non è interpretabile in termini tattici o politici. Seppure destra e sinistra, in modo diverso, hanno cercato di farlo proprio. Il fondo della questione è toccato da Giaime Rodano in due passaggi degli appunti inediti, scambiati in e-mail con Borghesi e che avrebbero dovuto essere pubblicati in un articolo organico se non fosse intervenuta la morte. Il primo è l’incarnazione.
Rodano scrive: “Passo ora a quella che mi pare una questione centrale della riflessione di P.: Dio che si fa uomo, Gesù che si incarna (l’avvenimento per eccellenza), che vive l’avventura mondana di tutti, che muore (e muore sulla croce, secondo quella che era allora la pena dei servi)”. Ed è un avvenimento che si propone all’uomo, alla sua libertà, non si impone. Il secondo è l’atteggiamento verso il mondo e la storia. Ancora Rodano: “Come oggi – ci dice P. – anche ai tempi di Gesù c’era la cattiveria dei tempi. Ma Egli non incriminò il mondo, non lo coprì di accuse, ma lo salvò”. Due cardini, verrebbe da dire, su cui montare la porta d’accesso alle tre virtù: fede, speranza e carità che il poeta francese ha saputo così bene descrivere in tante sue opere.
Pigi Colognesi, autore della prima biografia italiana di Péguy e della bella antologia Il fazzoletto di Veronique (Cantagalli), ci fa entrare nell’esperienza della lettura del poeta francese. Esperienza unica, a volte disturbante, a tratti respingente, ma evento quasi teatrale anche per il solitario e silenzioso lettore. “La lettura pura”, scrive Colognesi, “quella del bambino che si stupisce, è un avvenimento (parola centrale nel pensiero e nel lessico di Péguy)”. E cita questo passaggio da Il Portico del mistero della seconda virtù: “Gesù non ci ha dato delle parole morte/ Che noi dobbiamo chiudere in piccole scatole (O in grandi.) E che dobbiamo conservare in (dell’) olio rancido/ Come le mummie d’Egitto/ Gesù Cristo, bambina, non ci ha dato delle conserve di parole Da conservare/ Ma ci ha dato delle parole vive/ Da nutrire/ Ego sum via, veritas et vita, lo sono la via, la verità e la vita. Le parole di (della) vita, le parole vive non si possono conservare che vive/ Nutrite vive/ Nutrite, portate, scaldate, calde in un cuore vivo. Per nulla conservate ammuffite in piccole scatole di legno o di cartone./ È a noi, infermi, che è stato dato/ È da noi che dipende, infermi e carnali, di far vivere e di nutrire e di mantenere vive nel tempo/ Quelle parole pronunciate vive nel tempo”.
Nemico naturale, quasi istintivo, delle eresie, Péguy attacca le riduzioni gnostiche e agnostiche di un Gesù Cristo o solo uomo o solo Dio, ma nel senso di un dio non incarnato. Il teologo Agostino Molteni scrive benissimo nelle conclusioni del suo contributo su Studium: “Era contento e orgoglioso del suo Gesù che era stato capax Dei, capace di vivere nel corpo che il Padre (e sua madre Maria) gli aveva preparato (Eb 10,5); allo stesso tempo era stato capax hominis, capace di essere uomo e di ‘rifare (refaire) l’uomo‘”. Un Gesù Cristo, “sano, conveniente, non solo per i cristiani, ma per tutti gli uomini”.
All’ultimo Meeting di Rimini Ubaldo Casotto ha allestito una mostra sul grande poeta francese, dieci anni dopo la prima del 2014, che fu fatta in occasione del centenario della sua morte. Nel contributo scritto per Studium Casotto racconta di aver organizzato la Mostra in cahiers, in grandi taccuini, alti tre metri e larghi due, in cui venivano riproposte alcune tematiche care al poeta francese. “Péguy, sostiene Casotto, ha visto con decenni di anticipo il processo di secolarizzazione e di scristianizzazione in cui siamo immersi e ne segnala lucidamente la radice”. Introducendo il numero di Studium Francesco Bonini scrive sulla rivista: “Di Péguy, ancor più vivace, se possibile, della sua opera è il suo molteplice eco nel secolo che ci separa dalla sua tragica scomparsa. Ha alimentato ed alimenta l’elaborazione di risposte nuove e creative allo stallo, che, come ai suoi tempi, segna una pur scoppiettante attualità”. Un’attualità di cui non saremo mai stanchi.
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