La capacità di creare valore partendo dalla tradizione difetta spesso al nostro Paese e in particolare al Mezzogiorno. Con difficoltà la politica e le associazioni imprenditoriali appaiono trovare una intesa su ciò che serve per valorizzare il grande giacimento di cultura e produzione che ancora è sepolto, come un tesoro nascosto nel Mezzogiorno.



L’Italia è un Paese atipico nel panorama internazionale. Ha una storia recente di unità nazionale ancora incompiuta, caratterizzata da molti campanili, da un tessuto industriale fatto di PMI medio piccole e di poche grandi aziende in grado di confrontarsi a livello internazionale. Le multinazionali “italiane” sono poche e sempre più localizzate in Olanda, e l’Italia, pur essendo uno dei territori con maggiore capacità di esportare la cultura del cibo e dei suoi prodotti, spesso agisce in modo non organico. All’estero l’Italian sounding è una truffa commerciale che consente a produttori esteri di appropriarsi di caratteristiche attese dal consumatore senza che le stesse siano presenti nel prodotto. L’Italia ha una variegata e diffusa produzione di prodotti agricoli che non sempre vengono venduti come natura crea ma spesso sono stati dalla tradizione trasformati per ottenere derivati di primo ordine invidiati a livello mondiale. Tutelare questa peculiarità è prioritario.



Fare l’elenco sarebbe riduttivo, rischierebbe di essere parziale. Un aspetto importante delle produzioni italiane e il processo di trasformazione che tramandato dalla tradizione caratterizza i prodotti agricoli rappresentati da formaggi, vini, distillati, insaccati. Nella maggior parte dei casi il prodotto o il risultato della lavorazione della tradizione si identifica con un territorio o un’area più o meno diffusa. Il riconoscimento di prodotto protetto o di prodotto controllato avviene sulla base di un disciplinare approvato dalle autorità competenti, a valle di un processo lungo che incontra il primo ostacolo nel fare stare insieme le aziende, spesso piccole aziende, che hanno paura di collaborare tra loro per paura di perdere il proprio mercato.



Inizialmente i processi aggregativi, anche quelli limitati alla creazione di marchi DOC e DOP, sono caratterizzati da diffidenza e contrasti che possono minare alla base i processi aggregativi. Le produzioni protette diffuse al Sud sono poche perché il Meridione è caratterizzato storicamente da un eccesso di individualismo, da un eccesso di campanilismo e da una incapacità diffusa di collaborare/cooperare. L’ultimo esempio viene dal mondo dell’industria conserviera. Grazie all’iniziativa di alcuni operatori si vorrebbe raggiungere il riconoscimento Pelato di Napoli. L’obiettivo dei promotori è chiaro e semplice: innovare una filiera partendo dal passato e dalla tradizione. Vorrebbero ottenere il riconoscimento del processo che caratterizza la filiera delle imprese conserviere per tutelare all’estero la produzione italiana del pomodoro trasformato.

Storicamente il pomodoro trasformato, in passato o pelato, è stato identificato con Napoli e il Salernitano. Basterebbe citare un piatto di spaghetti al pomodoro, spesso rappresentato nei film di Totò o nelle commedie di Eduardo per affermare che Napoli e il pomodoro passato o pelato siano sinonimi. Andando oltre la rappresentazione folkloristica va sottolineato l’aspetto importante di questa iniziativa che è creare, attraverso il riconoscimento dell’IGP, un vantaggio per l’intera filiera. Il comitato promotore ha chiarito che il disciplinare proposto non riguarda la materia prima, ma il prodotto trasformato, appunto il pomodoro “pelato”. Si vuole perseguire, dunque, il riconoscimento di una IGP legata a una sola delle fasi di ottenimento del prodotto (produzione, trasformazione o elaborazione) che deve avvenire in una specifica area geografica e in questo caso ci si riferisce alla zona dove il pomodoro viene storicamente trasformato. È il caso di ricordare che la delimitazione geografica dell’area di trasformazione del pelato IGP, di cui discutiamo, include oltre la Regione Campania, dove ne viene trasformato oltre l’80%, anche l’Abruzzo, il Molise, la Basilicata e la stessa Puglia.  Dunque non viene messa in discussione l’origine del prodotto che tutti sanno provenire, come confermato, in massima parte dalla Puglia.

In questo contesto e con queste premesse si sono levate le recriminazioni della Puglia, che pur fornendo in esclusiva il prodotto da trasformare come previsto dal disciplinare, non ha resistito all’individualismo che caratterizza da sempre l’Italia e soprattutto il Mezzogiorno. Si rischia di non cogliere una opportunità che consentirebbe di ottenere da un prodotto, il pomodoro trasformato, un valore aggiunto anche in termini di capacità contrattuale sul mercato e che faciliterebbe la difesa dalla miriade di marchi esteri di pomodori in scatola venduti con il richiamo a Napoli o a Sorrento che con quelle zone nulla hanno a che vedere. Il processo di riconoscimento dell’IGP, pur non essendo in dubbio che un prodotto riconoscibile in un mercato globale produrrà i suoi vantaggi, anche economici, per l’intera filiera, viene rallentato non da nemici esterni ma da chi avrebbe solo benefici.

I nostri prodotti dai formaggi ai vini, dai cioccolatini alla moda sono storicamente copiati perché amati. La burocrazia europea ha spesso provato a minare alla base le specificità di questi prodotti cercando di svilire la tradizione. Farlo anche tra italiani diventa incomprensibile. Superare le recriminazioni dei produttori pugliesi diventa una opportunità per l’intera filiera per il sistema Italia che potrà portare sul mercato un prodotto che già esiste ma che diventerebbe più visibile e più tutelabile rispetto alle contraffazioni. Infatti, come richiesto dall’art. 3 del Decreto di attuazione del Regolamento UE 1151/2012, il Disciplinare di produzione, all’art. 6, individua gli elementi che stabiliscono il legame tra la qualità e la reputazione del prodotto e l’origine geografica con particolare riferimento alle tecniche di trasformazione utilizzate dalle aziende operanti nell’area di produzione industriale. E ciò perché il riconoscimento di una IGP deve essere legato a una sola delle fasi di ottenimento del prodotto (produzione agricola o trasformazione industriale) che deve avvenire in una specifica area geografica, come nel caso, ad esempio, della Bresaola della Valtellina IGP la cui trasformazione avviene in un areale determinato mentre la materia prima utilizzata può provenire da qualsiasi territorio o, ancora, della Burrata di Andria IGP il cui disciplinare impone che i caseifici che la trasformano devono essere in Puglia ma  nessun area produttiva del latte è imposta.

Nel caso del pomodoro è abbastanza evidente che dovendolo processare non oltre le 24 ore da quando viene raccolto, la materia prima, nel caso del Pelato di Napoli IGP, dovrà necessariamente provenire da aree produttive non lontane dagli stabilimenti, privilegiando naturalmente quelle storicamente vocate alla coltivazione della tipologia allungata, in particolare la provincia di Foggia che, sicuramente, potrà ottenere grandi vantaggi dal riconoscimento della IGP.

Ovviamente Napoli è da intendersi non solo come città, ma come simbolo del Mezzogiorno d’Italia e delle potenzialità che esso racchiude. È una filosofia e uno stile di vita tipico delle regioni del Bacino del Centro Sud, in una parola “la napoletanità”. Sarebbe una soluzione win/win per tutti. Ma a volte il Mezzogiorno a vincere non riesce proprio. Preferisce guardare i campanili mentre i suoi pomodori marciscono al sole.

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