“Il Re è morto”, hanno scritto di getto i giornali brasiliani. “W il Re”, aggiungiamo noi. Perché contrapporre Pelé, deceduto ad 82 anni giovedì sera a San Paolo dopo lunga malattia, a Maradona – come si sono affrettati a fare in molti – non ha molto senso. È come farlo con Coppi e Bartali, per fare l’esempio più classico. Entrambi inarrivabili in campo. E tuttavia Edson Arantes do Nascimento (Pelé è solo la sua storpiatura del nome di portiere che da bambino non riusciva a pronunciare correttamente) aveva – ce lo concedano argentini e napoletani – un tratto in più: la signorilità.
Pur provenendo, sottolineiamo, da una famiglia modesta in cui il ragazzino alternava i primi calci al pallone al mestiere di lustrascarpe (magari utilizzando gli stessi stracci per farne palloni). Il che non è poco quando, con tre titoli mondiali vinti e 1.281 goal ufficiali in 1.363 partite (media record di 0,93 segnature a gara), si è un’icona del calcio mondiale, ovvero dello sport più popolare.
Tralasciamo statistiche, dribbling, rovesciate, aspetti tecnici unici di cui in queste ore sono pieni i mass media. Diciamo qualcosa, invece, del lato umano senza pretendere di farne un santino. Quando negli anni Settanta, all’indomani della vittoria mondiale brasiliana in Messico ai danni dell’Italia, il presidente Angelo Moratti aveva pronto il contratto milionario per portarlo all’Inter, i tifosi della sua squadra di club, il Santos Botafogo, minacciarono la rivoluzione. Pelé non si oppose: rimase in patria perché sapeva che dal punto di vista calcistico (e il calcio, laggiù, è una religione, nel bene e nel male) il Brasile era Pelé e Pelé il Brasile. Nessun problema: era già grande allora e lo diventò ancora di più. Il 4 a 1 finale di Città del Messico, neanche a dirlo, portò anche la sua firma: goal di testa (lui che era alto solo 1 metro e 73) al 18esimo del primo tempo. A cercare di contrastarlo in elevazione era stato Tarcisio Burgnich: una roccia, non proprio l’ultimo arrivato. Lo ricordiamo qui perché il difensore dell’Inter e della Nazionale se n’è andato verso la metà del ’21, e nei mesi precedenti era toccato ad Anastasi, Maradona e Paolo Rossi. La storia del pallone. Quello di una volta, in fondo non molti anni fa, quando non era diventato ancora un commercio come un altro (anzi, meglio retribuito) e i tifosi andavano allo stadio per incitare la squadra del cuore, non per insultare l’altra.
È, in fondo, la stessa storia del ciclismo di cui abbiamo ricordato due eroici pedalatori ai quali ne aggiungiamo un terzo, Vittorio Adorni. Anche lui ci ha lasciati da poco, era la scorsa vigilia di Natale, anche lui esponente di una disciplina che fatica a ritrovare se stessa, anche lui facile al sorriso come Pelé, ma al quale i giornaloni italiani hanno dedicato meno dello spazio che meritava. Misteri, nemmeno tanto fitti, della comunicazione nostrana asservita alla logica della pubblicità. Il 25 novembre di due anni fa, alla morte del suo amico Diego Armando Maradona, “O’ Rey” lo salutò pubblicamente così: “Un giorno giocheremo insieme in Paradiso”. Altro che uno contro l’altro: insieme. E non su un campo qualunque.
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