I sindacati dei pensionati hanno promosso a Roma nelle scorse settimane una manifestazione nazionale a sostegno di una piattaforma rivendicativa unitaria, i cui punti principali riguardano, tra gli altri, le pensioni (un miglior sistema di rivalutazione automatica, l’estensione della cosiddetta quattordicesima, ecc.), la tutela della non autosufficienza (un settore praticamente sguarnito in una società che invecchia), talune misure di agevolazione fiscali per le persone in quiescenza. L’iniziativa è stata più o meno contemporanea alla presentazione di un Rapporto a cura dello Spi-Cgil, della Fondazione Di Vittorio e della società Tecnè, intitolato ai “sogni e ai bisogni dei pensionati”. Un titolo suggestivo perché – come dice un antico adagio – non esiste un’età in cui si smette di sognare.
Ovviamente, come in ogni ricerca che si rispetti, la selezione e l’interpretazione dei dati corrono sempre il rischio di essere influenzati da sensazioni soggettive e soprattutto dalla conferma, magari un po’ forzata, di quanto si è andati a cercare. Ci sentiamo così autorizzati a esprimere taluni punti di vista diversi, rispetto a quelli tracciati – come sintesi – nel rapporto dell’ottobre scorso, i cui brani riportiamo di seguito.
“(I pensionati, ndr) vivono un presente che non si distacca dal passato prossimo, senza miglioramenti e con una pericolosa inclinazione verso un peggioramento della propria condizione”. Qui si pone il solito ragionamento del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Sarà certo preoccupante che un 21% degli intervistati ritenga che la sua condizione economica personale sia deteriorata, ma è pur sempre vero che un 79% la giudica stabile. Una valutazione sostanzialmente analoga riguarda la percezione (l’unità di misura della società di oggi) dell’andamento della situazione economica generale del Paese, di cui solo il 22% intravvede un ulteriore peggioramento. Il Rapporto, poi, si proietta sugli anni a venire; anche in questo caso con una vena di pessimismo che non corrisponde sempre ai dati. Se il 91% dei soggetti che hanno preso parte alla ricerca ritiene infatti che la situazione economica della propria famiglia resterà invariata (a fronte di un 80% che esprime la medesima previsione per l’Italia nel suo complesso), a noi sembra difficile sostenere, come commenta il rapporto, che tra i pensionati prevalgono i pessimisti anziché gli ottimisti. Quanto meno sarebbe il caso di parlare – a seconda dei punti di vista – della prevalenza di persone serene o rassegnate.
Si tenga comunque conto degli importanti cambiamenti intervenuti nella struttura sociale del Paese. In 20 anni il reddito medio degli over 65 anni (non è detto che siano tutti pensionati, ma in larga maggioranza lo sono) è cresciuto di 18 punti; quello degli under 34 è diminuito di 11 punti. La quota di ricchezza detenuta dagli anziani è aumentata del 60%, mentre è calata di altrettanto per quanto riguarda gli under 34 anni. Eppure l’84% delle prestazioni assistenziali – quelle rivolte al contrasto della povertà – è riservato agli anziani. Vi è stata, quindi, una vera e propria redistribuzione della ricchezza tra le differenti coorti della popolazione.
Distribuzione della ricchezza dal 1991 al 2010 (fonte: Istat)
Non è un caso che il 35,7% dei pensionati (certifica la ricerca) dichiari di sostenere economicamente un parente stretto, quasi sempre un figlio. Il trend è omogeneo per tutta la penisola. Un ruolo che va oltre quello del tradizionale welfare informale, ma diventa – sostiene il Rapporto – un ammortizzatore economico che vale in campo nazionale – secondo le stime – tra gli 8 e i 10 miliardi di euro, cioè molto di più dell’onere del reddito di cittadinanza.
A questo proposito sono interessanti alcune considerazioni svolte da Luca Ricolfi in un suo recente saggio: “La società signorile di massa” (La nave di Teseo). Ricolfi ritiene che quanti dipingono i giovani come una generazione di esclusi, a cui “è stato rubato il futuro”, non vedono l’altra faccia della medaglia, ovvero che oggi – grazie alla ricchezza accumulata dai genitori e dai nonni – sono molti più di ieri i giovani che possono permettersi di non fare nulla. L’autore osserva che fatto 100 il numero dei residenti con almeno 15 anni, gli italiani che lavorano sono il 52,2%, quelli che non lavorano il 39,9%, mentre gli stranieri il 7,9%. Fra i cittadini italiani in età superiore ai 14 anni, la percentuale di quanti non lavorano supera il 50%. Per quanto riguarda la persone sopra la soglia di povertà, si tratta nell’87% dei casi di residenti, mentre nel 94% di cittadini italiani.
È paradossale – ribadisce Ricolfi -, ma quel che potrebbe succedere è che il racconto vittimistico oggi prevalente alla lunga funzioni come una profezia che si autorealizza.