Brutte notizie per i collaboratori coordinati e continuativi, iscritti alla Gestione separata dell’Inps. Con una decisione del 30 aprile 2021 (n. 11430), infatti, la Corte di Cassazione ha negato loro l’applicabilità del principio di automaticità delle prestazioni, sancito, per i lavoratori subordinati, dall’art. 2116, c.c.



La sentenza tocca potenzialmente una vasta platea di lavoratori, nonostante la complessiva diminuzione della categoria, registrata dal XX rapporto annuale dell’Inps, da poco reso pubblico, nel 2020: sono ancora 268.000 le co.co.co. e quelle, per così dire, “pure”, durante la pandemia, sono perfino cresciute dell’1,2%, con un’assoluta prevalenza delle donne (65%) e con un maggiore impatto nella fascia d’età tra 30 e 55 anni. 



Ricordiamo che il principio d’automaticità delle prestazioni consente al lavoratore subordinato di non subire le conseguenze pregiudizievoli dall’inadempimento dell’obbligo contributivo da parte del datore di lavoro. L’automaticità, secondo la Cassazione, è regola generale nel settore del lavoro dipendente, è derogabile solo da espressa previsione di legge (come accade parzialmente per i trattamenti pensionistici) e trova la sua ragion d’essere nella previsione dell’art. 2115 c.c. che fa del datore di lavoro l’unico debitore della contribuzione nei confronti dell’ente previdenziale, anche per la quota eventualmente a carico del lavoratore. Quest’ultimo resta terzo estraneo al rapporto contributivo, perciò non può vantare verso tale ente alcuna pretesa giuridicamente rilevante al pagamento dei contributi. 



Nel lavoro autonomo manca in genere il presupposto per applicare quel principio perché in capo al prestatore d’opera confluiscono le posizioni di debitore della contribuzione e beneficiario della prestazione. 

Tuttavia, per i co.co.co. l’art. 2, comma 29, l. n. 335/1995 ha rimesso a un decreto ministeriale di definire “modalità e termini” del versamento contributivo e di prevedere, “ove coerente con la natura dell’attività soggetta al contributo, il riparto del medesimo nella misura di un terzo a carico dell’iscritto e di due terzi a carico del committente”. A sua volta, l’art. 1, d.m. n. 281/1996 ha individuato nel committente il soggetto chiamato a versare l’intera contribuzione.

Di conseguenza, la struttura del rapporto contributivo nelle co.co.co. è stata ritenuta analoga a quella del lavoro subordinato, così riproponendosi il problema delle conseguenze dell’inadempimento contributivo risolto dal principio di automaticità delle prestazioni.

Dottrina e giurisprudenza si sono interrogati sull’applicabilità dell’art. 2116 c.c. a questa nuova situazione e tra i giudici di merito è prevalsa la risposta positiva, nonostante i dubbi da altri sollevati. A confutare questa soluzione arriva ora la decisione della Corte di Cassazione.

Una lettura formale di alcuni dati normativi – l’obbligo di iscrizione alla Gestione separata in capo al lavoratore e la corresponsione del contributo riferita a quest’ultimo nella regola sull’accredito dell’anno di contribuzione – ha indotto i giudici a negare che il committente sia l’unico responsabile del pagamento dei contributi, al pari del datore di lavoro. I co.co.co. resterebbero, invece, personalmente obbligati almeno per un terzo della contribuzione complessiva, mentre per gli altri due terzi vi sarebbe un “accollo privativo ex lege” che rende il committente debitore dell’ente previdenziale. 

Pertanto, la previsione del decreto ministeriale che individua il soggetto tenuto al versamento di tutta la contribuzione all’ente previdenziale nel committente non realizzerebbe un’equiparazione tra questi e il datore di lavoro, ma gli conferirebbe soltanto una delega di pagamento “con effetto liberatorio per il collaboratore” per la quota a suo carico. 

Cosa deve fare allora il lavoratore per tutelarsi da eventuali inadempimenti contributivi del committente? Non è scritto nella sentenza, ma deve, innanzitutto, vigilare sulla correttezza dei versamenti contributivi. In caso di inadempimento potrà personalmente versare la quota a suo carico (1/3). Per la parte restante, invece, la sentenza gli riconosce la possibilità di “rinunciare all’effetto liberatorio dell’accollo ex lege“, ricorrendo all’art. 1236 c.c.

In altri termini, il lavoratore dovrà dichiarare all’Inps la volontà di rinunciare al suddetto effetto e al contempo di assumere in proprio la parte di contribuzione dovuta dal committente, potendo peraltro rivalersi nei suoi confronti per danni. E la dichiarazione dovrà essere fatta “in un congruo termine”, individuato nel quinquennio entro cui si prescrive il credito contributivo. In alternativa, il lavoratore potrebbe agire per ottenere il risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 2116, comma 2, c.c. oppure con l’azione di cui all’art. 13, l. n. 1338/1962.

Non è qui possibile entrare nel merito delle argomentazioni, ma va detto che la decisione non convince quantomeno perché: a) l’obbligo posto in capo al committente voleva esattamente evitare di scaricare l’onere contributivo in capo al co.co.co., in ragione della sua assimilazione al lavoratore subordinato; b) aggrava i costi sopportati da questa categoria di lavoratori che già non percepiscono redditi particolarmente alti, esponendoli anche al rischio di non potersi rivalere a causa della chiusura o del fallimento dell’impresa committente; c) richiede al lavoratore una costante attività di vigilanza sul comportamento del committente, non sempre agevole; d) rende più complessa la gestione amministrativa del rapporto contributivo da parte dell’ente previdenziale. 

Non è detto che la sentenza abbia scritto la parola fine al problema dell’automaticità delle prestazioni per i co.co.co.: bisognerà vedere come si muoverà la giurisprudenza di merito. Certo è che è ora più difficile seguire la strada dell’incidente di costituzionalità, suggerita in dottrina perché metodologicamente più corretta, chiedendo alla Corte Costituzionale un contributo chiarificatore.

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