Nel corso dell’anno sono ormai 4 le decisioni della Corte Costituzionale sulla disciplina delle pensioni di reversibilità, segno di una qualche “sismicità” della materia in connessione alle trasformazioni e tensioni culturali, sociali ed economiche cui la famiglia è sottoposta.
Tralasciando la prima, la sentenza n. 88 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale per irragionevolezza dell’art. 38 d.P.R. 26 aprile 1957, n. 818, «nella parte in cui non include, tra i destinatari diretti ed immediati della pensione di reversibilità i nipoti maggiorenni orfani riconosciuti inabili al lavoro e viventi a carico degli ascendenti assicurati». Mentre la n. 100, pur concludendo per l’inammissibilità, ha comunque ritenuto esistenti validi argomenti di fondatezza della questione relativa all’attribuzione, «al figlio minorenne nato da due persone non unite tra loro da vincolo coniugale, di una quota della pensione privilegiata indiretta identica a quella del figlio che concorre insieme all’altro suo genitore superstite, anziché della maggior quota del 70% spettante al minore che abbia perduto entrambi i suoi genitori». In tal caso, infatti, il minorenne godrebbe indirettamente anche della quota spettante al superstite coniugato, diversamente dall’altra situazione, in cui nulla è riconosciuto al genitore.
Con la sentenza n. 162, invece, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale, per irragionevolezza, delle disposizioni che «in caso di cumulo tra il trattamento pensionistico ai superstiti e i redditi aggiuntivi del beneficiario, non prevede che la decurtazione effettiva della pensione non possa essere operata in misura superiore alla concorrenza dei redditi stessi».
La questione è interessante, perciò cerchiamo di capire di cosa si tratta.
L’art. 1 co. 41 l. n. 335/1995 e l’annessa Tabella F hanno, tra l’altro, introdotto un limite al cumulo tra pensione e altri redditi eventualmente percepiti del superstite beneficiario, prevedendo una riduzione progressiva della quota di pensione spettante, al crescere di tali redditi, determinati come multiplo del trattamento minimo di pensione del regime generale dei lavoratori dipendenti.
La decurtazione, comunque, non può scendere sotto un limite predeterminato e non opera se del nucleo familiare del beneficiario facciano parte figli di minore età, studenti ovvero inabili. In sostanza essa si applica soltanto quando la pensione ai superstiti spetti unicamente al coniuge.
Nel caso esaminato dalla Corte, queste regole hanno prodotto un taglio del trattamento di misura superiore ai redditi maturati dal beneficiario nei singoli anni di riferimento. E un simile esito appare antitetico con la ratio della pensione di reversibilità, di protrazione nel tempo del legame di solidarietà familiare: in questo caso, infatti, il legame finisce per nuocere al coniuge, «sottraendogli non solo l’ammontare corrispondente alla totalità dei redditi aggiuntivi prodotti, ma anche una parte dello stesso trattamento». La soluzione, inoltre, risulta contraddittoria con la logica propria del cumulo che, ove non espressamente vietato, implica di necessità un incremento patrimoniale rispetto ai redditi da lavoro prodotti dal beneficiario.
Ne consegue l’illegittimità della disposizione richiamata, ma soltanto nella «parte in cui […], non prevede che la decurtazione effettiva della pensione non possa essere operata in misura superiore alla concorrenza dei redditi stessi». Infatti, per «ricondurre a ragionevolezza le disposizioni censurate», la Corte reputa «necessario introdurre un tetto alle decurtazioni del trattamento di reversibilità» e lo individua ricorrendo al criterio della concorrenza con gli ulteriori redditi del titolare del trattamento pensionistico: perciò le decurtazioni possono arrivare fino a tale concorrenza, ma non andare oltre, intaccando i redditi stessi.
Tuttavia, fermo il condivisibile esito della decisione, l’applicazione del criterio della concorrenza rischia comunque di non salvaguardare la ratio del cumulo, perché la decurtazione, in assenza di altri limiti, può comunque portare alla perdita dell’intero trattamento pensionistico che risulti inferiore ai redditi prodotti.
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