Quale può essere l’agenda del Governo (se riesce a sopravvivere) per il lavoro e il welfare? Sulle pensioni è già aperta una trattativa con i sindacati, corredata di tanti tavoli tecnici da far invidia a una mensa aziendale. L’esito che si profila non è incoraggiante, anche perché tanto il ministro Nunzia Catalfo quanto le confederazioni sindacali sono intenzionate a superare la riforma Fornero, riportando le regole del sistema pensionistico a prima del 2011.



Si torna a parlare del salario minimo, immaginiamo sulla base del disegno di legge Catalfo, allora presidente della commissione Lavoro del Senato, ora titolare del Ministero. Il ddl conteneva una serie di norme importanti (forse di dubbia costituzionalità per quanto riguarda l’estensione erga omnes della contrattazione collettiva e le regole della rappresentanza), ma il dibattito si era concentrato sullo “smic all’italiana”, mettendo in luce un sostanziale dissenso tra le due componenti della maggioranza di allora e forse anche di quella attuale. In generale, però, il provvedimento aveva incontrato la contrarietà del mondo dell’impresa (soprattutto da parte delle Pmi che si vedevano aumentare il costo del lavoro per legge) e le perplessità dei sindacati stessi che temevano una manomissione della contrattazione collettiva nazionale.



La criticità del problema era stata sintetizzata dal prof. Pasquale Tridico, presidente dell’Inps e factotum del RdC: “I risultati dell’analisi – aveva scritto nel rapporto istituzionale dell’Istituto – evidenziano come, su un totale di 14,9 milioni di rapporti di lavoro, il 28.9% (4,3 milioni di rapporti di lavoro) si collochi sotto la soglia minima di 9 euro lordi. L’importo complessivo delle retribuzioni lorde (comprensive della 13° mensilità aggiuntiva) sotto soglia è pari a 9,7 miliardi di euro. Per i soli dipendenti delle aziende private non agricole, l’incidenza dei rapporti di lavoro sotto soglia scende al 25,9%, per retribuzioni complessive pari a 7,5 miliardi di euro. Inoltre – aveva concluso – l’incidenza dei salari al di sotto della soglia di 9 euro risulta essere decisamente più elevata per i giovani, per i lavoratori nel sud, per le donne, e per il settore manifatturiero, alberghiero, ristorazione e lavoratori domestici”.



Ma il solerte Tridico (l’immaginazione al potere!) aveva trovato, in un’intervista all’Ansa, anche la soluzione. Con la riduzione di due punti del cuneo fiscale sarebbero restituiti alle aziende almeno 6 miliardi. Quindi, secondo l’economista, l’incremento retributivo derivante dall’introduzione del salario minimo sarebbe stato in larga misura compensato. Ma sarebbero rimasti da coprire 1,5 miliardi gravanti prevalentemente sulle imprese minori. Che fare allora? Seguendo la logica di Tridico sarebbe bastato tagliare di un altro mezzo punto il cuneo e tutto si sarebbe sistemato.

Restavano, però, due questioni dimenticate: 1) alle aziende non sarebbe piaciuto fare “pari e patta”, ovvero pagare minori contributi in cambio di maggiori retribuzioni. Ma il ragionamento di Tridico – se non abbiamo scambiato lucciole per lanterne – avrebbe portato a tale conseguenza, discriminando persino le imprese perché alcune avrebbero tratto beneficio dal taglio del cuneo, altre, le Pmi, no; 2) alla fine, poi, chi altri avrebbe dovuto finanziare con risorse fiscali il taglio di qualche punto del cuneo se non il bilancio dello Stato, come poi è stato fatto in sede di legge di bilancio 2020? In conclusione il salario minimo sarebbe stato messo, indirettamente, a carico dei contribuenti, a conferma della solita politica del “paga Pantalone”.

In ogni caso queste ipotesi sono state spazzate via dal dibattito aperto sulla riduzione del costo del lavoro e dai primi provvedimenti del Governo. Nell’ombra, poi, si stavano muovendo operazioni molto ampie, tanto ambigue da far temere il peggio. Senza fare troppo rumore il Governo giallo-verde aveva presentato, il 13 giugno dell’anno scorso in Senato, un disegno di legge delega che avrebbe consentito, se approvato, di riscrivere gran parte del diritto del lavoro (sarebbe la terza volta dal 2012, prima con la legge n. 92 del ministro Fornero, poi col Jobs Act, il pezzo forte del governo Renzi). Speriamo che questo ddl abbia fatto la fine della flat tax. Ma non siamo del tutto tranquilli, perché sia LeU, sia una parte del Pd, continuano a masticare amaro in tema di articolo 18.

Per concludere, quale sarà la sorte di tanti progetti di legge rivolti a risolvere la questione della rappresentanza sindacale (che, ad avviso di chi scrive, è irrisolvibile per motivi politici e pratici)? Stanno, poi, venendo alla ribalta i danni provocati dal decreto dignità (altro demerito dell’esecutivo giallo-verde): se è vero, infatti, che il provvedimento ha determinato (ora sempre meno) trasformazioni di rapporti a termine in assunzioni stabili, è altrettanto vero che alla scadenza dei primi 12 mesi le imprese applicano un crudele turnover procedendo all’assunzione di un altro lavoratore. Basterebbe, almeno, consentire alla contrattazione collettiva di ampliare l’ambito delle causali idonee al rinnovo, dopo i primi 12 mesi, di un contratto a termine.

Un filo di speranza proviene dai negoziati un po’ carsici sul caso ex Ilva. I tecnici del Mef, intervenuti nella trattativa, hanno intessuto un dialogo positivo con i manager di ArcelorMittal. È necessario però che il tribunale di Milano conceda un’ulteriore proroga.