Chi scrive ha sempre considerato il Governo giallo-verde pericoloso per il Paese. Anche quando l’esecutivo ha finito per adeguarsi alle condizioni poste da Bruxelles, lo ha fatto dopo aver sprecato risorse e credibilità al solo scopo di esibire gli attributi, dopo averli gonfiati con una protesi. Sono stati gettati dall’elicottero miliardi di risparmi degli italiani soltanto parlando a vanvera, magari smentendosi il giorno dopo. Tuttavia, una crisi aperta senza palesi giustificazioni, in modo brutale, cercando di forzare la mano alle istituzioni democratiche, a partire dalla Presidenza della Repubblica, non può non creare preoccupazioni serie in un Paese che non cresce e che ha davanti a sé problemi enormi da affrontare e risolvere.
I dossier di alcune importanti vertenze – per le quali si profilavano soluzioni discutibili – restano sui tavoli a raccogliere la polvere. In particolare, non si capisce che cosa succederà all’ex Ilva visto che non sarà convertito il decreto con cui il Governo intendeva mettere una pezza all’improvvida abolizione dell’immunità per il management, come concordato con Arcelor-Mittal. Per quanto riguarda le politiche sociali e del lavoro, il reddito e la pensione di cittadinanza e le misure in tema di pensioni hanno – quasi tutte – la copertura di un triennio. E peraltro hanno registrato dei risparmi nella loro applicazione. Alcuni provvedimenti di cui si è molto discusso cadranno con la legislatura.
Il più significativo di questi riguarda il disegno di legge Catalfo sull’introduzione del salario minimo legale (di 9 euro lordi all’ora). La mancata entrata in scena di questo istituto tranquillizzerà però il sistema delle imprese, soprattutto piccole, che avrebbero subito un aumento secco del costo del lavoro per alcuni milioni di dipendenti. Ma non dispiacerà neppure ai sindacati che nello smic all’italiana intravvedevano una trappola per la contrattazione collettiva nazionale.
Nelle commissioni Lavoro sono all’esame anche taluni progetti riguardanti la questione della rappresentanza, di cui si parla da anni e si continuerà a farlo per altrettanti. Con la fine anticipata della Legislatura decadranno anche due disegni di legge delega presentati al Senato, ma ancora in fase di esami preliminari in commissione Lavoro. Il primo è l’AS 1122 recante “Deleghe al Governo per il miglioramento della pubblica amministrazione” presentato dal ministro Giulia Bongiorno. Benché non fosse ancora verificata l’attuazione della “riforma Madia” (che già veniva dopo la riforma Brunetta) si era di fronte al varo di un imponente numero di deleghe per cambiare di nuovo tutto.
Ovviamente, una nuova maggioranza e un nuovo Governo sono legittimati a portare avanti le proprie istanze. Ma occorrerebbe pur tener conto dell’esigenza di assicurare continuità all’azione amministrativa e di non destabilizzarne continuamente le strutture, la dirigenza e gli apparati. Peraltro, i termini delle deleghe erano troppo ampi (diciotto mesi dalla data di approvazione della legge). Considerato l’iter legislativo e la predisposizione dei decreti delegati, la “macchina” amministrativa avrebbe ritenuto superate le norme vigenti e si sarebbe messa ad attendere quelle nuove. Insomma, la paralisi al posto del cambiamento.
Dell’altro disegno di legge delega si è parlato pochissimo anche se il pacchetto dei presentatori era autorevole e bipartisan rispetto alle componenti della maggioranza (Conte, Bongiorno, Di Maio, Tria). Il disegno di legge (AS 1338) recava il titolo “Delega al Governo per la semplificazione e la codificazione in materia di lavoro”. Il fine indicato era quello – quanto meno sarchiaponesco – “di creare un sistema organico di disposizioni in materia di lavoro per rendere più chiari i princìpi regolatori delle disposizioni già vigenti e costruire un complesso armonico di previsioni di semplice applicazione”. L’idea che si dovesse chiarire quali sono i principi regolatori delle disposizioni vigenti a chi scrive dà l’impressione di un processo per stregoneria.