Crisi di governo: i contatti tra i due “promessi sposi” (copyright della Repubblica) proseguono come si stesse ballando una quadriglia, con le coppie che prima danzano insieme, poi ognuna si stacca e va avanti per suo conto. Ma se nella quadriglia si sa che le coppie torneranno a riunirsi insieme, nei giochi della politica può succedere il contrario. Come nel titolo di un libro di Hans Fallada: “Incontrarsi e dirsi addio”. La cosa che stupisce è che non si parla di merito, non si affrontano quei problemi che di solito si trasformano in ostacoli nella formazione di una maggioranza e di un Governo.



Possiamo supporre che di essi si sia presa nota (in termini vaghi e ambigui) in qualcuno dei punti (5 +10) che costituiscono le piattaforme dei due partiti. Non si sente parlare di lavoro (il Jobs Act va bene così?), di pensioni (che cosa si farà dopo la sperimentazione di Quota 100, sempre che la devianza salviniana della riforma Fornero prosegua nel suo accidentato cammino?). Il reddito di cittadinanza viene riconfermato dai “gialli” (che lo sottraggono alle critiche della Lega) e non contestato apertamente dai “rossi”, una parte dei quali è pentita di non averlo votato. Per quanto riguarda il Decreto dignità, si pone soltanto un problema facile da risolvere, se si tiene conto dell’esperienza.



Così, com’è oggi, ha prodotto un dualismo ancor più radicale nel mercato del lavoro, perché è vero che sono aumentate le trasformazioni in rapporti a tempo indeterminato a causa della tagliola posta per le proroghe dopo i primi dodici mesi a termine (per il ripristino di un’accentuata causalità), ma è altrettanto vero che i vincoli posti dalle causali introdotti dal Decreto dignità hanno determinato un accelerato effetto ricambio nell’ambito dei contratti a termine. In sostanza, trascorsi i primi dodici mesi, le imprese assumono un altro lavoratore. Basterebbe allora una maggiore flessibilità su questo aspetto per rendere meno penalizzate, sia per i datori che per i lavoratori, il ritorno all’obbligo di fornire una causale.



Ci sarebbero poi da abrogare quelle norme che mortificano il lavoro in somministrazione, anche in questo caso, sulla base di soluzioni concordate con le parti sociali. Il solo aspetto su cui – non per le cose che si dicono ora, ma per le posizioni sia del Pd che del M5S – sembra esservi un accordo che – oltre a privilegiare una riduzione del cuneo fiscale e contributivo – riguarda la cosiddetta sterilizzazione dell’incremento dell’Iva (peraltro già operante dal 1° gennaio prossimo per 23 miliardi e per 29 miliardi l’anno successivo). Come si dice oggi, questo problema è diventato “virale”, nel senso che lo si dipinge con toni catastrofici, come se fosse un’ombra malefica che grava sul futuro degli italiani. Sarebbe opportuno, invece, usare valutazioni più razionali come propone il ministro Giovanni Tria (la stessa tesi sostenuta dal suo predecessore Padoan) in linea con l’Unione europea.

Non è sbagliato tassare di più i consumi e di meno il reddito; magari acquisendo solo una parte dei 23 miliardi da un riordino delle aliquote Iva. Si è persino calcolato che l’entrata in vigore degli aumenti previsti costerebbe in media 600 euro all’anno per ogni famiglia. Non sarebbe il caso di compiere altre stime sugli effetti negativi delle politiche dell’ultimo anno? Per esempio, quanto ha perso dei suoi risparmi (anche modesti) una famiglia media in conseguenza delle tempeste finanziarie provocate dalle sparate prive di senso del Governo giallo-verde? L’Italia è un Paese di risparmiatori. Quattromila miliardi di risparmio si distribuiscono inevitabilmente su molti milioni di famiglie. È allora sufficiente che ognuno valuti – con una semplice operazione aritmetica – quanto ha perduto nel 2019 nei suoi investimenti. Si accorgerà che i conti pubblici in disordine fanno più danni ai privati cittadini dell’aumento dell’Iva.