Causa maltempo un’azienda sospende temporaneamente l’attività lavorativa in un cantiere e per tale periodo, in assenza della prestazione di lavoro, non retribuisce i lavoratori, né versa all’Inps i contributi previdenziali.

Secondo l’azienda, infatti, le avverse condizioni atmosferiche costituiscono una situazione di impossibilità sopravvenuta ai sensi degli art. 1463 e 1464 c.c., che, ancorché non prevista dalla contrattazione collettiva applicata, esplica i suoi effetti tanto sul versante del rapporto di lavoro (retribuzione) quanto su quello contributivo.



Non la pensa così l’Inps che ritiene comunque dovuta la contribuzione in base all’art. 1, d.l. n. 338/1989, convertito in l. n. 389/1989. E una recente sentenza della Corte di Cassazione (22/2/2021, n. 4676) ha avvallato le ragioni dell’ente previdenziale.

Ricordiamo che l’art. 1, d.l. n. 338/1989 stabilisce il c.d. minimale contributivo dovuto da ogni datore di lavoro, individuandolo nell’importo che spetterebbe ai lavoratori in base ai contratti collettivi del settore stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale. In altri termini, la contribuzione previdenziale va calcolata sulla retribuzione stabilita da questi contratti collettivi anche quando il lavoratore abbia diritto a una retribuzione inferiore in ragione della legittima applicazione di un diverso contratto collettivo, da parte del datore di lavoro. 



Quali le ragioni giuridiche addotte per fondare il diritto dell’ente previdenziale alla contribuzione, anche in assenza della prestazione lavorativa per causa di forza maggiore? La Corte richiama il consolidato principio di autonomia del rapporto contributivo rispetto all’obbligazione retributiva. Di tale principio è espressione la norma citata del 1989 la cui operatività, si dice, concerne sia l’ammontare della retribuzione imponibile a fini contributivi sia l’orario di lavoro da prendere a parametro, che deve essere quello normale stabilito dalla contrattazione collettiva. 



Ne deriva l’irrilevanza dell’eventuale riduzione dell’orario lavorativo quale che ne sia la causa o ragione giustificativa, salvo che sia prevista dalla legge (le ipotesi di sospensione del rapporto di lavoro) o dal contratto collettivo applicato dal datore di lavoro.

La situazione di impossibilità sopravvenuta della prestazione, perciò, libera le parti del rapporto di lavoro dai rispettivi obblighi fondamentali (prestazione e retribuzione), ma non sospende l’obbligazione contributiva, che resta dovuta nella misura stabilita dall’art. 1, d.l. n. 338/1989.

La fattispecie valutata dalla decisione è precedente la situazione di blocco delle attività produttive (quasi) totale o settoriale, prodotta dalla pandemia. Tuttavia, non è dubbio che le chiusure ex lege costituiscano situazioni di impossibilità sopravvenuta della prestazione. È facilmente intuibile quali potrebbero essere le ricadute della sentenza in esame. 

È vero che per fronteggiare gli effetti dell’emergenza sanitaria il legislatore ha disposto speciali misure, in particolare i trattamenti di integrazione salariale con la specifica causale “emergenza Covid-19”: questi non sono, tuttavia, obbligatori per i datori di lavoro, mentre è generalizzato il blocco dei licenziamenti. Perciò, non si può escludere che si verifichino situazioni come quelle esaminate dalla Cassazione.

Più in generale, comunque, ci sono argomenti da approfondire che sembrano contraddire la determinazione del minimale contributivo sull’orario di lavoro previsto dal contratto collettivo con esclusione di qualsiasi rilevanza di quello “effettivo”. Innanzitutto, il tenore letterale della norma che si limita a individuare nella retribuzione di un dato contratto il parametro per calcolare la contribuzione. Inoltre, non è fortemente ambigua la ratio del minimale, diversamente indicata dal legislatore e dalla giurisprudenza, in realtà, probabilmente rispondente alla finalità, estranea al sistema previdenziale, di sostegno alle organizzazioni sindacali più rappresentative. Infine, l’autonomia del rapporto contributivo è sì sancita dall’art. 2115 c.c., ma ciò non equivale a negare l’esistenza di forti connessioni col rapporto di lavoro, tanto più finché a finanziare il sistema saranno datori e lavoratori.

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