Matteo Salvini “crede” di essere un oracolo vivente in tema di pensioni; fino a permettersi di insolentire Elsa Fornero anche quando l’ex ministro fa delle considerazioni che sono confermate da tutta la letteratura internazionale e stanno alla base dei tentativi di riforma che – sia pure con fatica – i governi cercano di portare avanti.
In questa campagna elettorale i toni sembrano essere meno esacerbati quando i programmi affrontano l’oggetto del desiderio degli italiani (come ha dichiarato Marco Bentivogli, l’Italia è un Paese dove quando si affronta il tema del lavoro la prima domanda riguarda quando si va in pensione). Il centrodestra si è coalizzato intorno alla proposta della pensione minima a mille euro al mese, che costa un sacco di soldi, premia gli evasori, in quanto sarebbe normale chiedersi perché pagare i contributi per intero quando – ceteris paribus – sarebbe assicurato un trattamento (se si parla di pensioni e non di pensionati) pari al 67% di quelli in vigore. Ciò mentre il Pd vagheggia di flessibilità in uscita come se non ce ne fosse già abbastanza.
A condurre una guerra ad oltranza contro la persona fisica dell’ex ministro (come se le norma introdotte nel decreto Salva Italia ed entrate in vigore nel 2012 le avesse scritte da sola per puro malanimo nei confronti di chi lavora) è rimasto il Conducator della Lega.
A Bari, in campagna elettorale (ma la macabra telenovela va avanti da dieci anni con esibizioni indecorose, ignoranti e maleducate che, pur tuttavia, hanno attecchito nell’opinione pubblica) Salvini ha preso spunto da una dichiarazione televisiva dell’ex ministro per lanciarsi in una tiritera che otterrebbe un grande successo nella sala biliardo di un Bar Sport di provincia. Elsa Fornero aveva osato dire: “Questi anziani in Italia potrebbero lavorare un po’ di più”. Per l’ex Capitano si tratta di “una frase che umilia milioni di lavoratori 60enni che attendono da tempo di poter andare in pensione senza attendere i 67 anni fissati appunto dalla riforma Fornero”. Perciò, innervositosi, si è lanciato in un’escalation da “codice rosso”: “Vergognati, chiudi la bocca se devi dire queste sciocchezze, porta rispetto a chi lavora da 40 anni in una fabbrica, in un ristorante, in una casa di riposo”.
Peccato, perché le considerazioni di Fornero non erano affatto una bestemmia, ma una constatazione pacifica in tutta la letteratura internazionale, a fronte degli squilibri demografici che patiscono nella morsa implacabile e all’effetto congiunto della denatalità e dell’invecchiamento.
Ci limitiamo a citare – en passant – il brano di una intervista di Gian Carlo Blangiardo, autorevole demografo e presidente dell’Istat, nominato dal governo giallo-verde. “Con una demografia come questa non è sostenibile che le imprese mandino il proprio personale via a 55-60 anni”. Poi alla domanda maliziosa del giornalista sulla responsabilità della legislazione, Blangiardo ha risposto: “Non so dire se, e in che misura, sia colpa della legislazione. So soltanto che ci sono troppe uscite anticipate. E a questo si dovrebbe trovare un rimedio”.
Sarebbe poi il caso di spiegare a Salvini che vi sono, non per sfizio, ma per necessità di sistema e in tutto il mondo, due tipologie di pensioni (oltre alla invalidità e alla reversibilità): il trattamento di vecchiaia ordinario e quello anticipato/anzianità. Nel primo caso, il requisito principale è quello anagrafico (67 anni) a fronte di un’anzianità contributiva di almeno 20 anni; nel secondo, il requisito è essenzialmente contributivo, a un livello elevato (per il segretario della Lega dovrebbe essere di 41 anni, oggi e fino a tutto il 2026, è pari a 42 anni e 10 mesi per gli uomini e a un anno in meno per le donne), ma a prescindere, in generale, dall’età anagrafica. Per la vecchiaia (un trattamento nei fatti destinato alle donne, la componente debole del mercato del lavoro, solitamente non in grado di maturare un’anzianità lavorativa adeguata) si va già in pensione a 67 anni, senza che il governo giallo-verde si sia preso la briga di bloccare – come per l’anzianità fino al 2026 – l’adeguamento automatico all’attesa di vita.
Il fatto che Salvini indichi il requisito dei 41 anni di anzianità come se fosse una regola applicabile in generale svela soltanto l’ignoranza del Conducator, secondo il quale tutti i pensionati hanno le caratteristiche dell’operaio del Nord, nato ai tempi del baby boom e vissuto in un contesto economico e del mercato del lavoro che gli ha consentito di entrare presto nel mercato del lavoro e di rimanerci stabilmente per un lungo periodo di anni.
I trend demografici possono fare dei brutti scherzi. Non è difficile immaginare che ci sarà un momento in cui il milione di nati nel 1964 verrà a contatto – come pensionati – con i 399mila nati nel 2021 (o magari con i 500mila di anni precedenti). Che cosa succederà a quel punto? Se oggi vi sono 2,7 potenziali lavoratori per ogni anziano, fra una trentina d’anni per ogni tre persone in età lavorativa ci saranno due over 65 da mantenere, essendo il finanziamento del sistema pensionistico a ripartizione.
In un periodo ancora più breve andranno in pensione, infatti, coorti nate in tempi prolifici, mentre la platea dei contribuenti si ridurrà progressivamente per effetto della filiera progressiva della denatalità. Prima o poi si dovrà prendere atto che i giovani, di cui ci sarebbe bisogno per compensare l’invecchiamento, non esistono perché non sono nati in numero adeguato. E gli immigrati, che potrebbero prendere il loro posto per assicurare la forza lavoro occorrente, non sono garantiti e comunque dovrebbero essere organizzati e integrati.
Come è possibile allora pretendere di mandare in pensione per i prossimi anni dei 60enni o poco più (perché è questa l’età effettiva alla decorrenza per chi usufruisce delle tante vie di uscita anticipate), appartenenti a generazioni numerose, che percepiranno il loro trattamento per almeno una ventina di anni a spese di una platea di potenziali contribuenti che progressivamente si riduce?
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