La decisione era già stata presa il 15 novembre 2018, ma perché diventasse operativa c’è voluto un po’ di tempo. La nuova traduzione del Padre Nostro, che corregge il vecchio “non indurci in tentazione” con il più adeguato “non abbandonarci alla tentazione”, sarà inserita nel nuovo Messale Romano che la Conferenza episcopale italiana consegnerà alla Chiesa italiana subito dopo Pasqua, cioè il 12 aprile, ma si comincerà a utilizzarla nella Messa solo a partire dal 29 novembre, prima Domenica d’Avvento.



Tutto ciò per un motivo molto semplice: dare a tutti il tempo di acquistare il nuovo messale, insomma “di attrezzarsi” con il nuovo volume che avrà altri piccoli ritocchi soprattutto nella parte del nuovo Ordinamento generale (la parte iniziale del volume dove ci sono le istruzioni per il sacerdote su come celebrare la Messa).



Era stato proprio Papa Francesco, in più di un’occasione, a sottolineare come l’attuale traduzione “fosse cattiva”. La prima volta avvenne nel corso del programma “Padre nostro” su Tv2000. “Non è una buona traduzione – disse il Pontefice quando si ripeté la formula che dal prossimo novembre sarà in disuso –. Anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che dice ‘non lasciarmi cadere nella tentazione’, sono io a cadere, non è Lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto, un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito. Quello che ti induce in tentazione è Satana, quello è l’ufficio di Satana”.



In linea di massima è necessario ogni tanto cambiare le traduzioni: sia della Scrittura che delle preghiere più tradizionali. Questo perché il passare del tempo crea sensibilità nuove che richiedono parole nuove. Non sarebbe per nulla che dopo questo cambiamento ne seguano altri.

Un’altra espressione del Padre Nostro per esempio, “rimetti a noi i nostri debiti”, ormai non è di semplice lettura per tutti. Sarebbe meglio dire – come nei paesi di lingua spagnola – “rimetti a noi le nostre colpe”, dal significato senz’altro più semplice e lineare. Anche l’inizio dell’Ave Maria andrebbe cambiato: “Ave”, oggi come oggi, indica soltanto un richiamo al saluto romano e invece il significato originario, quello del vangelo, è “rallegrati”: l’arcangelo san Gabriele, all’inizio dell’Annunciazione, invita Maria a rallegrarsi per quanto le sta per dire.

A fronte di queste ragioni che spingono al cambiamento, il motivo per cui la Chiesa va con i piedi di piombo nel rinnovare formule che da decenni passano di padre in figlio (o, più spesso, da nonno a nipote) è che il Padre Nostro e l’Ave Maria sono, per molti, quasi le uniche preghiere davvero conosciute a memoria e spesso ripetute. C’è da valutare quindi, di volta in volta, se conviene rischiare di “perdere” le preghiere di quelle persone che frequentano poco le chiese e che si troveranno senza “le loro preghiere” probabilmente non facendo lo sforzo di imparare le piccole nuove variazioni, e la miglior comprensione da parte degli altri.

Papa Francesco, però, come per molti altri aspetti della vita cristiana, spinge verso questi ragionevoli cambiamenti. Nel caso concreto del “Padre nostro” gioca a suo favore l’esperienza positiva che il Papa ha fatto quando era vescovo di Buenos Aires.

Tornando al cambiamento del Padre Nostro ormai deciso, perché per tanto tempo si è pensato che andasse bene “non indurci in tentazione”? Perché c’è un senso, ormai andato in disuso della parola tentazione, che non è strettamente e radicalmente negativo. Quando una mamma incoraggia il bambino a muovere i primi passi verso il papà spinge il figlio a mettersi alla prova, a rischiare, accettando il rischio che cada. In questo senso lo “mette in tentazione”: è quell’incoraggiare a vivere, a sperimentare, a rischiare con ottimismo, che ogni buon genitore auspica per la propria prole.

Nella Bibbia ci sono molte situazioni in cui Dio mette alla prova con l’intento di far crescere: basti pensare al sacrifico di Isacco quando Dio, dice la Bibbia, “mise alla prova Abramo” (Gn 22,1). L’obiettivo di Dio non è sperare che Abramo cada e pecchi, ma insegnare all’uomo, cioè ad Abramo, a donarsi a Dio.

Tutto ciò, di per sé, è bello e positivo ma purtroppo nel parlare comune questo senso positivo della “tentazione” è ormai oscuro: prevale il demoniaco “tentare” con l’obiettivo di far cadere, di far morire, di causare danno a qualcuno che si odia.

Per questa ragione, mantenere nella situazione attuale la traduzione “non c’indurre in tentazione” non darebbe all’uomo d’oggi una corretta immagine di Dio, perché, come ha detto il Papa, confonderebbe Dio con il seduttore. Il demonio nel paradiso terrestre tentò Adamo ed Eva perché voleva indurre la sua caduta, voleva il male dell’uomo, desiderava far soccombere i nostri progenitori. E tutto ciò niente ha a che vedere con le intenzioni di Dio. Per questo ben venga il cambiamento.