Il 14 luglio del 2016 la vita di Tahar Mejri era cambiata per sempre. L’attentato terroristico di Nizza gli portò via la moglie e il suo piccolo bimbo di quattro anni. Da allora per lui, mussulmano d’occidente, quella non fu più vita. E infatti, tormentato dal suo dolore, iniziò a lasciarsi spegnere. Fino a ieri, fino alla morte.
Nella morte di Tahar c’è la morte dell’islam, della promessa da cui nacque l’islam, quando un gruppo di poveri contadini restò per la prima volta affascinato dalla promessa di giustizia che l’annuncio del profeta introduceva nel loro mondo. Quella giustizia che restituisce dignità perché restituisce onore e rispetto a Dio. Quella giustizia che il terrorismo in nome di Allah porta invece via a uno dei suoi figli, lasciandolo nel suo oceano di dolore, senza alcuna promessa di riscatto.
Ma nella morte di Tahar c’è pure la morte dell’occidente, che non sa più dire una parola di bene e di verità davanti al dolore. Tre anni trascorsi nel nulla, senza una prospettiva, senza una proposta, senza un nuovo inizio. Chi potrebbe resistere nel nulla con un dolore così greve sul cuore? Che cosa abbiamo noi occidentali da offrire ad un cuore trafitto da una simile sofferenza? Forse che il problema non è tanto chi arriva sulle nostre terre, bensì il nulla che si trova, la disperazione e il silenzio che si respira?
Infine, la morte di Tahar è un po’ la morte di ognuno di noi, che moriamo decine di volte prima di morire davvero. Il dolore ha la capacità di uccidere la nostra speranza, i nostri sogni, i nostri desideri. Il dolore sembra essere il nostro vero nemico e rischia di divorare amicizie, passioni, matrimoni, amori, responsabilità. Nel dolore perdiamo tutto. E del dolore abbiamo paura. Perché in fondo sentiamo che il dolore ci toglie dignità.
Che forza l’annuncio della Croce di Cristo che annuncia agli uomini che vale la pena stare nel dolore, perché ogni dolore è anticamera di Resurrezione, è promessa di novità.
Tahar è morto distrutto da una promessa di felicità che sentiva tradita. E noi, uomini occidentali in questo frangente di millennio, rischiamo di aver così paura di soffrire da non avere più voglia di impegnarci in una promessa per vivere. Da sentirci condannati ad una solitudine che, in realtà, non è assenza, ma attesa del Mistero.