L’altro ieri cinquantadue agenti della Polizia penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere sono stati arrestati o interdetti per le punizioni fisiche inflitte ai detenuti dopo la rivolta scoppiata in quel carcere un anno fa, quando si erano diffuse notizie sul primo caso di Covid nella struttura. Per quanto sappiamo la rivolta era terminata la sera stessa, ma, secondo la Procura, il giorno successivo gli agenti avrebbero pestato per ore molti detenuti del carcere “Uccella” commettendo anche atti di tortura.
Le aggressioni per le quali gli agenti sono indagati dunque non sono state commesse durante la rivolta, non sono frutto di un momento d’ira incontrollata, sono successive: quando la rivolta era terminata, quando i detenuti si erano arresi e nessuno opponeva resistenza.
Confesso di essere riuscito a guardare i video disponibili a tutti in rete solo per pochi secondi. La violenza è brutale. I colpi vengono dati, oltre che con i manganelli, anche con le mani che indossano guanti: particolare quest’ultimo significativo per chi conosce le dinamiche di questi incidenti.
In quei pochi secondi si ha la prova evidente di come il carcere, invece di essere luogo di correzione e di reintegrazione nella società, diventa antro nel quale sfogare insoddisfazione, delusione, rabbia. Quegli agenti picchiano e lo fanno in modo professionale. Pestaggi immotivati e violentissimi con i detenuti costretti con la faccia contro il muro così da subire gragnuole di pugni o bastonate senza capire da dove provenissero i colpi rimanendo in tal modo ancor più scioccati e senza la possibilità di incolpare qualcuno di specifico. Un detenuto ha raccontato di aver subito un’ispezione anale con un manganello, un altro sarebbe stato massacrato di botte e gli avrebbero urinato addosso, molti camminavano carponi: non viene risparmiato neppure un uomo in carrozzella con il suo “piantone” (cioè il detenuto che lo accompagna).
In questi casi, a volte si usa un’aggettivazione che coinvolge il mondo animale. Si parla di “rabbia bestiale” per indicare qualcosa di crudele, che esplode in maniera cieca. Ma nulla di tutto ciò è avvenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere nell’aprile del 2020. Alla protesta organizzata dai detenuti perché le misure anti-Covid non erano sufficienti segue la risposta delle guardie carcerarie che è di un violenza inaudita e “pensata”. Si ha l’impressione di essere davanti a un modus operandi con le caratteristiche di una routine che ha perfino un nome, visto che si parla di “sistema Poggioreale”. Sicuramente le indagini dovranno fare il loro corso. È necessario accertare colpe e comprendere le responsabilità, ma lascia attonito constatare come coloro che, in divisa, dovrebbero garantire l’ordine e la calma decidano di usare la violenza in maniera scientifica.
Nella patria di Cesare Beccaria è terribile dover riconoscere la precarietà della condizione carceraria che così condanna la delinquenza a restare tale perché non riconosce a essa alcun reale percorso di reinserimento sociale. In questi casi sembra che indossare una divisa e rappresentare le istituzioni spinga a perpetrare una violenza pericolosissima perché crede di essere giustificata dal fatto di essere rivolta verso carcerati. Brilla così l’autoreferenzialità di un potere che si ritiene coperto dall’impunità e che invece disconosce non solo la misericordia, ma anche la semplice giustizia umana.
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