Peste suina africana (Psa): ne sentirete parlare sempre più spesso. Si tratta di una malattia che colpisce maiali e ungulati in genere, i cinghiali ad esempio. È stata identificata per la prima volta in Kenya nel 1921 e, nel corso degli anni, si è fatta sempre più aggressiva. La Psa può avere gravi impatti sulla suinicoltura e sull’industria suinicola, nonché sull’ecosistema in cui vivono i suini selvatici. Il virus responsabile della Psa è l’ASFV (African Swine Fever Virus), un virus a Dna appartenente alla famiglia degli Asfarviridae. Molto resistente, può sopravvivere nell’ambiente per lunghi periodi.
La malattia si trasmette principalmente attraverso il contatto diretto tra suini infetti e sani. Può anche diffondersi attraverso il contatto con materiali contaminati, come cibo, acqua, veicoli e attrezzi agricoli. Per fortuna gli esseri umani non sono suscettibili all’infezione da ASFV. I suini infetti possono sviluppare sintomi che includono febbre alta, mancanza di appetito, emorragie cutanee e morte improvvisa. La malattia ha un alto tasso di mortalità tra i suini infetti, con un tasso di letalità che può raggiungere il 100%.
La Psa può causare gravi perdite nell’industria suinicola, poiché spesso richiede la distruzione di interi allevamenti per prevenire la diffusione della malattia. Questo può avere conseguenze economiche significative per i produttori di carne suina e può influenzare i prezzi della carne suina nei mercati internazionali. Nel corso degli anni, la PSA si è diffusa in varie parti del mondo, comprese Europa, Asia e Africa. Le misure di controllo e prevenzione sono state spesso implementate per cercare di limitare la sua diffusione. La prevenzione della Psa implica misure rigorose di biosicurezza nelle operazioni suinicole per prevenire l’introduzione del virus. Inoltre, il controllo della malattia può comportare la culling (abbattimento) di suini infetti o potenzialmente infetti, insieme a misure di quarantena e sorveglianza.
La peste suina africana rappresenta una grave minaccia per l’industria suinicola e richiede una risposta rapida e coordinata per prevenirne la diffusione. Alcuni anni fa si diffuse in modo prepotente in Cina. Furono abbattuti circa 500 milioni di maiali. Il governo cinese corse subito ai ripari in quanto la carne di maiale è la più grande fonte di sostentamento per la popolazione di quel Paese. Immediate le ripercussioni sul mercato internazionale. I broker cinesi compravano tutto a qualsiasi prezzo per soddisfare la domanda nazionale. Ci furono aumenti considerevoli di prezzo. E anche il nostro mercato risentì in modo pesante di queste turbolenze.
Oggi la Psa è arrivata in modo dirompente anche in Italia. A dire il vero, c’è da tempo ma sinora era limitata alla Sardegna. La prima segnalazione è del 20 gennaio 2022. La Psa viene rintracciata in una carcassa di cinghiale a Ovada. Da allora si sono susseguite varie segnalazioni in altre regioni italiane. La situazione precipita in agosto con un caso segnalato in un allevamento domestico e successivamente con altri tre casi in allevamenti intensivi in provincia di Pavia. Oggi si sta correndo rapidamente, anche se tardivamente, ai ripari. Nel corso di una riunione, tenutasi a Roma il 31 agosto, e che ha visto la presenza di rappresentanti dei ministeri interessati, degli allevatori e dell’industria di trasformazione, “è stato licenziato”, come riporta Rudy Milani di Confagricoltura, “un piano di abbattimento dei cinghiali e misure attive di biosicurezza per gli allevamenti”.
La questione è spessa in quanto coinvolge, oltre agli allevatori, tutta l’industria di trasformazione, come ha sottolineato Pietro D’Angeli, presidente di Assica, l’associazione che riunisce l’industria delle carni e dei salumi: “Non posso esimermi dal continuare a sollecitare il Governo ad accelerare negli interventi di eradicazione e prevenzione a contrasto della Psa sul nostro territorio: lo chiedono le oltre 200 imprese della trasformazione e della macellazione delle carni suine e i loro quasi 30mila addetti, con un fatturato di circa 8 miliardi di euro, che sentono fortemente minacciata la tenuta della filiera di cui fanno parte”. Cosa può succedere se non si corre subito ai ripari? Il prezzo dei salumi potrebbe schizzare alle stelle. Con un’incidenza notevole sui costi dell’alimentazione delle famiglie che vedono nel maiale una fonte di sostentamento a buon mercato. Per non parlare delle immediate ricadute sui prodotti Dop. Oggi il costo di un chilo di prosciutto di Parma, al banco taglio, si aggira intorno ai 30 euro. Vogliamo farlo raddoppiare? Per non parlare poi dell’export. Diversi Paesi potrebbero bloccare l’importazione dei nostri prodotti di salumeria con conseguenze drammatiche sull’economia del settore.
A margine di tutto questo vale la pena segnalare la posizione degli animalisti. Lo scorso anno, in risposta a un decreto della Regione Lombardia che, per contenere la Psa, fissava in cento euro il prezzo fissato per l’abbattimento di ogni femmina di cinghiale, così commentava l’associazione Lndc Animal Protection tramite la presidente Piera Rosati: “Si tratta dell’ennesimo regalo alla lobby venatoria. Si premia con denaro chi uccide una femmina di cinghiale. Ormai è evidente che la caccia non è la soluzione. Le istituzioni dovrebbero trovare nuove misure per una convivenza pacifica con i selvatici”. Parlare di convivenza pacifica con bestioni che possono arrivare a 140 chili di peso, denti da 21 centimetri di lunghezza, che rischiano di mettere in ginocchio una delle eccellenze alimentari italiane, è pura follia demagogica.
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