Immaginate un campione del rock inglese degli anni 70-80 che un bel giorno si faccia ibernare, proprio all’inizio di questo millennio e dopo più di vent’anni vissuti in “sospensione” all’interno dell’involucro tecnologico, improvvisamente si risvegli e per la gioia dei suoi fan, ogni notte di luna piena posti in rete il video di una canzone inedita che alla fine dell’anno solare verrà inserita in un album “fisico”. Che tipo di musica offrirà, questo artista ai suoi ritrovati fedeli ascoltatori che tanto lo hanno atteso, mentre cambiavano i ritmi e le stagioni della musica?
Li stupirà con nuovi brani sperimentali, aldilà di ogni cognizione temporale, con nuove formule compositive e nuove sensazioni oppure, come se il tempo non fosse mai passato (vabbè, era ibernato!) riproponga atmosfere e soluzioni sonore identiche a quelle che respirava 40 anni fa, comodamente, nella sua, se pur pregevole, “comfort – zone”?
Peter Gabriel, il protagonista di questa storia, mezza vera e mezza no, sposa decisamente la seconda opzione.
Ed ecco l’antefatto: il fondatore ed ex leader dei Genesis, uno degli inventori del prog rock e ideatore nei primi anni ’70 dei live show dove musica e arti visive per la prima volta sorprendentemente si fondevano, paladino dei percorsi etnici della world music degli anni ‘80 (contemporaneamente a Paul Simon, David Byrne, senza dimenticare il Fabrizio De André di “Creuza de mà”) accolto trionfalmente a livello mondiale grazie a tre album fenomenali “So”, “Us” e “Up”, dopo un paio di esperimenti discografici un po’ azzardati tra innovazione elettronica e classicità orchestrale, esattamente dall’ormai lontano 2002 si è fatto desiderare e non ha più prodotto inediti che facessero gridare al gran ritorno della novità discografica.
Finalmente, dall’inizio di quest’anno, questa “ibernazione” si è scongelata e attendendo l’album confezionato, dal titolo, come i precedenti molto succinto “I/O”, e che si presume verrà pubblicato alla fine del 2023, ad ogni plenilunio, l’ultra settantenne Gabriel ha rivelato la sua nuova produzione, che, inaspettatamente (data la vivacità del suo genio musicale) non fa nient’altro che ribadire il sound, forse un po’ magnificamente pigro, che tanto lo aveva imposto sulla scena rock negli ultimi quindici anni del millennio scorso.
E a conferma di ciò ha richiamato negli studi di registrazione londinesi, altamente tecnologici, della sua casa discografica, la Realworld, i fidi musicisti che lo hanno accompagnato nei suoi successi: Tony Levin al basso, David Rhodes alle chitarre e Manu Katché alla batteria e percussioni.
Si tratta di una serie di brani che confermano tutta la classe dell’artista britannico e il gusto inalterato nella pulizia e ricercatezza negli arrangiamenti, veri e propri scenari sonori.
Ed ecco l’inconfondibile voce sempre in primo piano, l’apoteosi di tastiere e fiati, le atmosfere sussurrate tra dolci melodie, classico ed elettronico sapientemente miscelati, spruzzi di gospel, percussioni sempre attente, le esplosioni corali, i ritorni ai ritmi funk di “Sledgehammer”, echi dei Beatles del periodo decadente, le cantilene quasi liturgiche e soprattutto un brano, “Playing for time”, che rasenta il capolavoro e che sembra “rubato” dal catalogo di Randy Newman, icona del cantautorato americano più raffinato.
Insomma una grande prova professionale dove nulla è lasciato al caso pur nell’orizzonte non inedito di levigate atmosfere sonore decisamente anni ’80, sostenute da testi seriosi, confusamente in bilico in un racconto tra scenari orwelliani di una società connessa in una rete di conoscenze che danno vita ad “una gigantesca biblioteca vivente di esperienze umane e planetarie”, una giustizia alla ricerca di “un ordine nel caos”, lanciando messaggi per una società che superino il concetto di “isole indipendenti” e, finalmente più semplicemente e meno ideologicamente pretestuosa, la scoperta dell’amore “che guarisce”, un sentimento non banale “elemento fondamentale” per essere “connessi alle cose” (i virgolettati sono dello stesso Gabriel).
Una visione discutibile, in un mix quasi sincretista tra religioni e intelligenza artificiale, un ‘campo’, quasi onirico, nel quale Gabriel, a mo’ di “guru tribale”, si trova a suo agio, nell’intenzione di dare un’impronta originale e un “perché” a tutto il progetto discografico.
E in effetti, dell’evento discografico, nel modo tradizionalmente inteso, questo lavoro ha ben poco: l’uscita mensile dei brani in rete, ci sembra, tolga la sorpresa dell’evento “confezionato” , quella del primo ascolto “organizzato” su disco. Ma è un’impressione che forse abbiamo noi, fruitori un po’ anziani, che siamo rimasti prigionieri di certe convenzioni del marketing più classico.
D’altra parte questi brani nuovi sono già stati “testati” insieme ai classici di quarant’anni fa (quelli pre-ibernazione) nella tournée che Gabriel ha organizzato con grande successo nei palazzetti europei (con tappe a Verona e Milano), suscitando grandi consensi ed esibendo una grande forma fisica e coreografica.
Non ci resta che aspettare i prossimi pleniluni di questo scorcio finale del 2023 e attendere la data ufficiale della pubblicazione di questo album “a pezzi”, sicuri che indipendentemente dai giudizi, sarà senz’altro considerato tra le novità discografiche più interessanti di quest’anno solare (pardon: lunare).
Fino alla prossima ibernazione.
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