Uno dei fattori chiave dell’obesità potrebbe essere l’esposizione all’inquinamento. Nello specifico, uno studio danese pubblicato sulla rivista Obesity punta il dito contro i cosiddetti “inquinanti eterni”, vale a dire l’esposizione ai composti perfluoroalchilici, i famigerati Pfas. Sotto questa sigla si celano quasi 4000 composti chimici sintetici, tra cui Pfoa (acido perfluoroottanoico) e PFHxS (acido perfluoroesano solfonico).
I Pfas sono stati utilizzati fin dagli anni Cinquanta per le loro proprietà antiaderenti, termoresistenti e impermeabilizzanti, trovando impiego in prodotti industriali e di consumo quali l’abbigliamento sportivo, gli imballaggi alimentari e i rivestimenti antiaderenti, per citarne alcuni. Si tratta di composti chimici estremamente resistenti nel tempo e persistenti nell’acqua, nell’aria, nel suolo e dunque nella catena alimentare. Lo studio condotto da Philippe Grandjean, ricercatore in medicina ambientale presso l’Università della Danimarca meridionale a Odense svela l’inedita correlazione tra l’esposizione ai Pfas e l’obesità. Nel 2019, Santé publique France ha quantificato con regolarità la presenza di 7 Pfas su 17 nel sangue della popolazione francese adulta, che può averli assunti principalmente tramite gli alimenti come frutti di mare, carne, frutta, uova e acqua. Il team di Philippe Grandjean si è concentrato su un campione di 400 tra uomini e donne affetti da obesità, provenienti da 8 Paesi, e variando la loro dieta ha scoperto la correlazione tra l’aumento di peso e i Pfas nel sangue.
Pfas e obesità, come sono legati? “Metabolismo lipidico e ormoni tiroidei…”
Pfas e obesità, le persone seguite dallo studio danese hanno mostrato che in media hanno riacquistato 1,5 chili quando nel sangue era presente una concentrazione doppia di Pfoa, e di 1 chilo quando abbondava il PFHxS. “La correlazione con gli altri Pfas misurati era nella stessa direzione” si legge nello studio, mentre dopo un anno chi seguiva una dieta bilanciata con alti livelli di Pfoa nel sangue ha mostrato lo stesso aumento di peso (5 kg) dei volontari che seguivano una dieta meno equilibrata ma con una quantità relativamente bassa di Pfoa nel sangue.
Brigitte Le Magueresse, direttrice dell’Inserm, spiega che “gli studi sugli animali hanno dimostrato che l’esposizione ai perfluorurati potrebbe alterare il metabolismo lipidico e la differenziazione degli adipociti (le cellule del tessuto adiposo) attivando specifici recettori (recettori PPARg). Altri meccanismi descritti coinvolgerebbero gli ormoni tiroidei”. In pratica, lo squilibrio indotto nel sistema porta a un eccesso di cellule che immagazzinano di trigliceridi e questa attivazione permanente altera anche l’alternanza di fame e sazietà.