Nelle 120 slide del documento “Iniziative per il rilancio” – “Italia 2020-2022”, più volgarmente conosciuto come “Piano Colao“, vengono toccati tantissimi aspetti del contesto in cui le imprese si trovano a operare in Italia. Nelle slide sono contenute proposte, poche per la verità, che potrebbero essere attuate subito come “l’esclusione del contagio COVID da responsabilità penale” e altre che sembrano sostanzialmente inattuabili senza una riforma profonda del funzionamento della giustizia in Italia soprattutto nelle parti più vicine al lavoro della Pubblica amministrazione e in generale dell’approccio del fisco e dei controllori verso le imprese.
Prima di entrare in qualche dettaglio ci sembra ci sia un difetto di impostazione nel dibattito che il piano ha generato. Questo piano ad ampio spettro e di medio-lungo periodo non ha effetti di breve e non risponde alle esigenze urgenti che arrivano dal mondo delle imprese e delle partite Iva. Su questo versante hanno molto più senso e efficacia misure semplici e brutali come quelle messe in atto in Germania con l’accredito sul conto corrente immediato di “soldi veri”. La “pace fiscale”, qualche commissario per qualche grande opera, una sanatoria di qualche trimestre sulla burocrazia più costosa con il capovolgimento dell’approccio dei controlli ex-ante e un po’ di deregulation temporanea sul mercato del lavoro in alcuni settori, per esempio in agricoltura, avrebbero certamente molto più senso e consentirebbero la sopravvivenza di molte imprese anche al netto di qualche comportamento opportunistico che pure è da mettere in conto come nel caso di alcuni “redditi di cittadinanza”. Dibattere di un grande piano o di “stati generali” non è un errore in quanto tale, ma lo è sicuramente se si pensa che in questo modo si possano risolvere i problemi urgenti dell’economia italiana. È un piano di governo più che un piano per l’emergenza.
Non possiamo analizzare un piano così ampio nella sua interezza in poche righe, per questo ci concentriamo su tre punti.
Il primo è “di metodo”. In alcune proposte – “Incentivo all’adozione di sistemi di tax control framework” (slide 19) oppure “Emersione lavoro nero” (slide 20) o ancora “Emersione e regolarizzazione del contante” (slide 21) – si ricava l’impressione di un aggravio di costi fissi per le imprese per poter accedere ai benefici. La grande impresa non avrebbe problemi ad attivare le misure, mentre per la piccola e media impresa, e certamente per la piccolissima, si tratterebbe di caricarsi di costi fissi importanti e “upfront”. Sarebbe un compito gravoso, anche in termini di ore uomo, in una fase economica positiva, ma in questa diventa improbo. Il rischio è che il piano assuma come controparte la grande impresa, magari quotata, e si dimentichi che la spina dorsale dell’economia italiana è quella delle PMI e che queste sono proprio le più minacciate dalla crisi attuale.
Il secondo punto è quello sulle procedure concorsuali (slide 12). Con i tribunali rimasti chiusi per molte settimane e la crisi senza precedenti che si prospetta per il 2020 si rischia di assumere la prospettiva comoda dell’inevitabilità del fallimento “veloce” di un alto numero di imprese. Lo Stato italiano, soprattutto nel suo ruolo di collettore di tasse e pagatore di stipendi e servizi, non dovrebbe avere alcun incentivo ad assumere questo approccio. L’impresa che sicuramente non pagherà mai le tasse non è quella che evade, ma quella fallita.
Il terzo punto è invece oggettivamente molto pericoloso. Nelle slide 13 sulle partecipate pubbliche si legge della proposta di una “semplificazione delle procedure di vendita delle azioni (art. 10, comma 2)”, consentendo che la situazione emergenziale legittimi anche “l’alienazione … mediante negoziazione diretta con un singolo acquirente”. Anche in questo caso ci si limita a immaginare un percorso di cessione veloce di quote di partecipate pubbliche, magari indipendentemente dalla loro virtuosità e efficienza, come mezzo per garantirne la continuità. Un approccio che rischia di aprire la strada a interventi opportunistici fatti a prezzi di saldo da parte di investitori “privati”.
Il problema ovviamente non è il ruolo privato, ma le circostanze in cui avviene, esattamente come il problema non è l’autostrada gestita da un privato, ma uno schema di concessione eccessivamente favorevole e senza controllo.