Politici e burocrati israeliani della municipalità di Gerusalemme si sono fatti prendere la mano dai grandi eventi della storia. Il Piano Trump per loro è già operativo. Finalmente, dopo anni di cambiamenti compiuti giorno dopo giorno ma senza clamore, per loro è giunto il tempo delle decisioni e delle immediate conseguenze. Cambiano nome, di conseguenza, cinque grandi strade della parte araba della città. Verranno intitolate a quattro rabbini e ad un’organizzazione ebraica. Tutte cose già viste negli anni passati. Ricordo una mattina di sette anni fa quando il nome del quartiere dove abitavo, Musrara, scomparve dalle indicazioni stradali e divenne Morasha, nome voluto dalla comunità ebraica invece del tradizionale nome arabo.
Nulla di nuovo sotto il cielo di Gerusalemme. Tuttavia qualche politico israeliano adesso si è accorto che il Piano Trump e l’ostilità che ha rinfocolato non sono un buon viatico per cambiamenti del genere. Quindi, per il momento, i nomi delle strade rimarranno gli stessi, giusto il tempo di far sbollire la rabbia dei manifestanti palestinesi, che anche a Gerusalemme sono tornati in strada. Si può morire anche per impedire che il nome delle strade venga strappato, per fermare la distruzione della memoria di una storia araba e palestinese della città. Sarebbe, altrimenti, la certificazione dei cambiamenti imposti dagli israeliani e pienamente recepiti nel Piano Trump.
Le proteste in strada ed anche gli attacchi contro i soldati e i coloni israeliani sono ripresi, come lingue di fuoco, a Gerusalemme e in Cisgiordania. Come già accaduto in altri periodi, impressionante è la sproporzione tra le vittime. Cinque palestinesi, quattro dei quali di appena vent’anni, uccisi nei primi due giorni delle proteste. Decine e decine i feriti. A Gerusalemme invece si è registrato l’attacco agli israeliani più eclatante: dodici reclute israeliane ferite da un’auto che si è gettata contro di loro. In Cisgiordania ora si usano proiettili letali e non di gomma, è l’avvertenza delle fonti dell’esercito israeliano.
Una guerra a “bassa intensità” rischia ora di rinfocolarsi. Tuttavia i calcoli dei militari di Tel Aviv dicono che la situazione è sotto controllo e “controllabile” anche in futuro. La frustrazione diffusa tra i palestinesi è l’arma più temibile in mano all’esercito israeliano per una repressione che non sia una nuova strage. D’altra parte le centinaia di morti e le migliaia di palestinesi feriti sul confine di Gaza, negli ultimi due anni, sono lì a testimoniare la capacità del mondo arabo e di quello occidentale di assorbire nell’indifferenza anche i fatti più tragici.
Resta comunque il macigno di un Piano di pace che al di fuori della Casa Bianca e della residenza del primo ministro israeliano a Gerusalemme, è giudicato dai politici e dai diplomatici di mezzo mondo una fonte di guai più che una soluzione ai problemi. Trasformare le terre palestinesi in un Bantustan sudafricano, imperante negli anni dell’apartheid, non promette nulla di buono. Il tempo delle riserve indiane americane d’altra parte appartiene ad un’altra epoca storica. È pur vero che esistono, nel mondo arabo, anche coloro che sono pronti a pugnalare alle spalle i palestinesi. In questo modo sono stati definiti i governanti degli Emirati Arabi Uniti, che hanno esaltato il Piano Trump. L’ennesimo segnale dell’incapacità delle monarchie del Golfo di riformarsi e di affrontare senza isterie la sfida politica e sociale che giunge dall’Iran.
Tra due giorni al Consiglio di sicurezza dell’Onu parlerà il presidente palestinese Abu Mazen. Troverà il consenso della maggioranza dei 15 membri del Consiglio, guidati da Tunisia ed Indonesia, ma anche l’ennesimo veto di Trump ad una risoluzione che vuole mettere in discussione i fondamenti di un Accordo, dove i palestinesi non sono stati nemmeno interpellati.