Probabilmente non avrebbe comunque retto all’impatto devastante, quanto a velocità del contagio, del Coronavirus, ma sicuramente avrebbe potuto evitare l’eccessiva ospedalizzazione dei pazienti, il pericoloso diffondersi del virus tra gli anziani ospitati nelle Rsa e forse porre un argine efficace all’attuale carenza, a dire il vero diffusa a livello nazionale, dei dispositivi di protezione individuale, mascherine in primis.
Ogni epidemia, dicono i virologi e non solo, insegna sempre qualcosa. La Lombardia – solo dieci anni fa, mica secoli – un’epidemia vera, non attesa o studiata a tavolino, ha dovuto affrontarla. E nel 2009, quando appunto è scoppiata l’influenza suina che ha colpito soprattutto giovani e adolescenti seppure con ricoveri ospedalieri non confrontabili con quella attuale, lo ha fatto potendo contare su un Piano di contrasto ad hoc.
Riavvolgiamo il nastro. Dopo la Sars del 2003-2004, l’Oms aveva dato indicazione ai paesi membri di predisporre piani per le pandemie. Nel 2005 il ministero della Salute aveva chiesto alle Regioni di realizzare piani pandemici regionali, da trasmettere alle Asl (Aziende sanitarie locali), le quali a loro volta avrebbero dovuto adottarne uno per ogni singolo territorio. Insomma, un piano capillare.
Il piano pandemico riprende le definizioni adottate dall’Oms per classificare i diversi periodi che caratterizzano andamento e diffusione delle patologie infettive: periodo interpandemico (quando non è in atto alcuna pandemia), allerta pandemico (quando compare un nuovo agente microbico non noto), periodo pandemico (come quello in cui ci troviamo oggi a causa di una aumentata e prolungata trasmissione della nuova patologia alla popolazione generale) e quello post-pandemico (che segna il ritorno alla normalità).
Per ciascuna di queste fasi il piano del 2010 prevede delle azioni. Nel periodo interpandemico, per esempio, cioè in uno stato di normalità, si suggerisce di provvedere, con indicazioni operative precise, alla raccolta e alla notifica, sistematica dei dati relativi alle malattie infettive.
In occasione dell’influenza suina (H1N1), la Lombardia istituisce un sistema di sorveglianza sindromico, in grado di raccogliere tutti i dati della distribuzione dei virus, in particolare di quelli influenzali stagionali, attraverso le segnalazioni dei cosiddetti medici sentinella, incaricati di raccogliere i dati su tutte le sindromi influenzali.
Nel piano vengono dettagliati anche gli assetti organizzativi al fine di stabilire le diverse linee di comando (indicando Direzioni generali e unità operative coinvolte), le strategie di comunicazione (per aggiornare le diverse tappe e gestire i rapporti tra sistema regionale e sistemi periferici: Asl, soggetti coinvolti…) e l’attivazione del sistema di sorveglianza epidemiologica e virologica. Ma soprattutto vengono specificate le misure di prevenzione e controllo, precisando nel dettaglio tipologie d’azione da compiere, tempi di realizzazione da rispettare e individuazione di un responsabile per ciascun anello della catena di comando. Tutto questo, sia nella fase di allerta che, ovviamente, nella fase pandemica.
A distanza di 10 anni, quelle strategie sono valide ancora oggi, anzi, potrebbero addirittura giovarsi dell’effetto moltiplicatore, in fatto di efficienza ed efficacia, garantito dalle nuove tecnologie, che allora non erano ancora così diffuse e potenti.
Nel 2009, dunque, il piano viene applicato sul campo e al termine della pandemia, come previsto dallo stesso piano, viene effettuata una “Valutazione”, per mettere in evidenza i punti di forza, da mantenere, ma soprattutto le criticità, da correggere, perché possano tornare utili a non ripetere gli errori commessi. “Valutazione” che trova spazio nella delibera della Regione 1046 del 22 dicembre 2010 che sulla base delle azioni e dei tempi previsti dal piano, fa una valutazione dei risultati ottenuti. E cosa insegna quella esperienza? Tre lezioni dimenticate.
Prima lezione: si poteva evitare l’eccessiva ospedalizzazione attraverso un maggior coinvolgimento dei medici di medicina generale, siglando quegli accordi, che allora non vennero stipulati, per garantire “l’ampliamento dell’assistenza in fase 6” (come spiega l’Oms, è “la fase pandemica propriamente detta”).
Seconda lezione: si poteva definire un “accordo-quadro con le residenze per anziani per l’aumento di assistenza medica e infermieristica”. Nel 2009 non fu adottata alcuna azione specifica e oggi nelle Rsa il coronavirus rischia di dilagare, causando molti decessi.
E la terza lezione dimenticata? Riguarda l’attuale carenza di dispositivi di protezione individuale. Quel piano, in realtà, dava mandato, a livello regionale e alle Asl, già in fase di pre-allerta pandemico di definire il fabbisogno e l’acquisto di mascherine in ambito sanitario. Ma questa, purtroppo, più che della sola Lombardia, è una lacuna a livello nazionale.