La Commissione europea ha presentato ieri il Green Deal Industrial Plan per rispondere all’Inflation Reduction Act degli Stati Uniti. La proposta, che finirà sul tavolo del Consiglio europeo del 9-10 febbraio, si articola su due pilastri.

Il primo è trasformare il quadro di temporaneo di crisi per gli aiuti di Stato in un quadro temporaneo, fino alla fine del 2025, “di crisi e transizione”, in modo da incentivare l’introduzione di energie rinnovabili, sostenere la decarbonizzazione dell’industria e la realizzazione di prodotti necessari alla transizione green. Il secondo è la creazione, entro l’estate, del fondo sovrano europeo annunciato da Ursula von der Leyen a Davos, finalizzato allo stesso tipo di investimenti.



Il Governo italiano ha intanto inviato a Bruxelles e agli altri Governi dell’Ue un non paper, in vista del vertice di settimana prossima, in cui evidenzia il rischio che “lo snellimento delle norme Ue sugli aiuti di Stato” possa avvantaggiare gli “Stati membri con un maggiore margine di manovra fiscale o con maggiori opportunità di sottoscrivere il debito a condizioni vantaggiose” e “questo non farebbe altro che innescare una corsa alle sovvenzioni all’interno dell’Ue e portare a una frammentazione del mercato unico”. Abbiamo chiesto un commento a Giulio Sapellieconomista, già ordinario all’Università Statale di Milano.



Cosa pensa della proposta arrivata dalla Commissione europea?

In primo luogo, noto che sembra trovare legittimazione quello che un gruppo di studiosi, economisti e giuristi, pur in minoranza, auspicava già tempo fa. Persone che proprio per le loro posizioni sono state spesso tacciate scioccamente di euroscetticismo, mentre in realtà si tratta di europeisti critici. Oltre a evidenziare la necessità di misure economiche comuni tra i vari Stati, ritenevano fondamentale rivedere il Trattato di Maastricht che vieta gli aiuti di Stato, precludendo così la continuità con i 30 anni gloriosi dell’Europa successivi alla Seconda guerra mondiale determinati dall’economia mista pubblico-privato. Oggi, di fatto, si afferma questa idea, ma purtroppo come risposta a una manovra statunitense di dumping fondata su quella che è sempre stata una caratteristica del capitalismo liberista americano.



Quale?

Mentre da una parte liberalizzavano l’economia, soprattutto nel settore finanziario, dall’altra gli Usa hanno fatto ricorso agli aiuti di Stato o a una manovra ben più significativa dal punto di vista politico ed economico, quella dei dazi, come si vede ancora oggi nei rapporti con la Cina, visto che Biden ha mantenuto le tariffe doganali introdotte da Trump. Si tratta di manovre preoccupanti.

Perché?

Perché possono dare il via a una serie di decoupling multipli – Usa contro Cina, Ue contro Usa, ecc. -, mentre organismi nati per favorire il libero commercio, quali la Wto, sono stati resi inefficaci proprio dalla politica degli Stati Uniti che rifiutano le sue decisioni nonostante siano stati di fatto i suoi creatori. Il commercio mondiale vive quindi una grave crisi non solo per la guerra e la pandemia, ma anche perché gli organismi preposti al suo funzionamento sono stati messi all’angolo dal ripiegamento su una posizione protezionista da parte degli Usa.

Ha parlato di scontri tra Usa e Cina o tra Ue e Usa, ma nel non paper del Governo italiano si paventa il rischio di una frammentazione del mercato unico a seguito di una sorta di competizione tra gli stessi Paesi membri dell’Ue…

È così, gira e rigira il problema è sempre lo stesso: quello tedesco. Dopo la sua riunificazione, avvenuta troppo rapidamente, la Germania ha imposto un’unione monetaria tra Paesi con un diverse strutture economiche e una differente produttività del lavoro per via di una politica di tipo ordoliberista fondata sull’export cui serviva una moneta che avesse un valore internazionale più basso rispetto al marco.

Creando, però, problemi agli altri membri dell’Eurozona.

Il surplus commerciale inanellato per anni ha imposto a tutti gli altri Paesi un mercato interno europeo fondato su bassi salari e la diminuzione dei prezzi dei prodotti importati in Germania. Questo è il vero problema che si nasconde dietro al conflitto di potenza. I tedeschi, insieme ai Paesi più anglosassoni come quelli Baltici e l’Olanda, hanno creato un fronte comune contro tutti i Paesi del Sud e la Francia, con la quale avevano invece siglato un Trattato nel 1963 che prefigurava una politica economica comune europea frutto della cooperazione tra Parigi e Berlino, ma tutto questo non si è poi avverato.

Oggi, però, la Germania non se la passa bene dal punto di vista economico: il Pil nell’ultimo trimestre del 2022 è sceso dello 0,2% e il Fmi prevede che il 2023 si chiuderà con una crescita dello 0,1%.

La pandemia, prima, e la guerra di aggressione imperiale della Russia all’Ucraina, poi, hanno danneggiato principalmente la Germania. Non dobbiamo dimenticare che non esiste un’economia tedesca, ma un’economia tedesco-russo-cinese organicamente unita che fa paura agli Stati Uniti. Le sanzioni che Washington ha fortemente voluto contro la Russia sono in realtà contro la Germania.

E la Germania come risponde a questa situazione?

Risponde come rispondono i disperati: attuando una politica di aiuti di Stato solitaria e perseguendo, nonostante il sostegno all’Ucraina, comunque riluttante, una politica economica internazionale fondamentalmente diretta all’accordo con la Russia e la Cina.

Secondo lei, cosa dovrebbe fare l’Europa?

Oggi si vuol dare via libera a maggiori aiuti di Stato, ma bisognerà affrontare il problema di fondo: la necessità di arrivare a un finanziamento mutualistico, tramite tassazione o il mercato finanziario, degli investimenti. Serve un fondo comune europeo.

Il ministro tedesco delle Finanze Lidner ha già detto che “non ci servono nuovi fondi europei, dobbiamo usare meglio quelli che abbiamo già” come il Next Generation Eu, di cui tra l’altro l’Italia è il principale beneficiario con più di 290 miliardi di euro.

Innanzitutto, va ricordato che essendo l’Italia uno dei principali contributori netti dell’Ue, ha finanziato parte di quei fondi che sta ricevendo. Non va poi dimenticato che se le economie sono interconnesse bisogna condividere non solo le regole, ma anche i debiti, così come gli investimenti.

Un fondo comune potrebbe arrivare in estate. Se, però, nel frattempo nessuno si opporrà all’allentamento immediato delle regole sugli aiuti di Stato, qualcuno ne approfitterà a danno degli altri…

Questo sta già accadendo, anche perché l’elemento caratterizzante dell’Ue in questo momento è la diversa capacità di potenza tra Paesi derivante dal proprio livello di debito pubblico e dalla conseguente libertà di movimento dal punto di vista sia erariale che di investimento. Quello che mi sembra preoccupante è la polemica costante, che ha anche degli elementi visibili nei loro comportamenti prossemici, tra Charles Michel e Ursula von der Leyen, segno di una crescente divisione tra i due.

Quanto è preoccupante questa divisione?

Il Consiglio europeo riunisce i capi di Stato e di Governo, cioè rappresentanti eletti dai popoli europei, e la Commissione europea, composta da burocrati, dovrebbe essere a suo servizio. Mi pare invece che la Commissione tenda ad andare per conto proprio, quindi si profila davanti a noi una divisione tra politica e burocrazia. Emerge, mi pare, un dramma su cui insisto da tempo: l’Europa non ha una Costituzione, ma si basa solo su un ordinamento giuridico di fatto, cioè un rapporto di potenza, e questo oggi è pericolosissimo, perché i burocrati della Commissione rappresentano quasi uno Stato nello Stato.

E non sembra che tra di loro i Commissari abbiano una linea comune…

Essendo membri di uno Stato senza fondamento giuridico sono protagonisti di faide che riflettono le faglie nazionali prima che politiche. Cioè, si è innanzitutto francesi, tedeschi polacchi, ecc. e solo dopo socialisti, popolari verdi, ecc. Speriamo, quindi, che questa divisione tra Commissione e Consiglio si possa ricomporre proprio tramite la creazione di un fondo comune europeo.

Molto dipenderà dall’esito del Consiglio europeo di settimana prossima. La linea della Germania è abbastanza chiara: dallo status quo, e con i soli aiuti di Stato, ci guadagna. La Francia invece?

I francesi continuano a fare quello che hanno sempre fatto: una politica di potenza fondata sulla mediazione. Oggi cercano di essere negoziatori tra la Germania e i Paesi penalizzati dall’egemonia tedesca, a cui in questo modo cercano anch’essi di sottrarsi. Occorre però fare attenzione a non provocare la Germania, perché potrebbe emergere una sua volontà di potenza che annichilirebbe tutti in Europa dal punto di vista economico.

L’Italia, invece, cosa deve fare?

Mi pare che si comporti abbastanza bene. L’attuale Governo mi sembra non abbia ancora chiara una linea, una visione strategica, ma ha delle pulsioni verso un europeismo non subalterno, che non significa anti-europeismo.

È per questo che l’Italia appare più sola in Europa?

È necessario che il Governo Meloni in questa fase appaia solo, perché può attrarre tutte le forze economiche e politiche presenti nei diversi Stati che comprendono che si è veramente europei se si riformano i Trattati. È auspicabile un grande dibattito intellettuale in Europa perché ci si doti finalmente di una vera Costituzione. Abbiamo bisogno di un federalismo europeo che non sia retorico.

Sul piano politico l’Italia dovrebbe arrivare a porre il veto su iniziative contrarie a questo spirito europeista, ma espressione di un’egemonia tedesca o dei Paesi del nord?

No, in questa fase sarebbe pericoloso. Il veto, infatti, ci isolerebbe e rafforzerebbe la burocrazia, lo Stato ombra, la tecnocrazia, che è sì divisa, ma è minacciosa. Occorre invece cercare alleanze, produrre documenti, incontri, rivedere i Trattati che sono stati scritti frettolosamente in una situazione di subalternità come il Trattato del Quirinale, bisogna rapidamente farne uno italo-tedesco, organizzare summit con Spagna, Portogallo e Grecia. È necessario muoversi rapidamente chiamando alla bisogna le migliori forze intellettuali di questo Paese senza discriminazioni partitiche.

(Lorenzo Torrisi)

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