Le indagini della procura di Bergamo sulla gestione della prima ondata Covid in Italia non sono ancora chiuse, ma arrivano importanti ricostruzioni che aiutano a far luce su quanto accaduto nelle valli della Bergamasca, dove morirono oltre 6mila persone. A rivelarle è il Fatto Quotidiano, che in esclusiva spiega cosa dicono le carte nelle mani dei pm. Sono cinque peraltro le domande a cui hanno dovuto trovare risposta: come è stata gestita la pandemia all’ospedale di Alzano Lombardo, come furono trattati i pazienti di quell’ospedale, come si è diffuso il coronavirus, a partire dal Pesenti Fenaroli, alla Val Seriana, se era necessaria una zona rossa nell’area di Alzano e Nembro, come fu applicato il piano pandemico nazionale. La perizia redatta dal professor Andrea Crisanti, microbiologo dell’università di Padova, ora senatore Pd, ha risposto a quattro di questi cinque quesiti. Quel che è emerso che è il 23 febbraio 2020 non fu il giorno zero del contagio e che, stando alle stime, si potevano evitare da 2mila a 4mila vittime se fosse stata istituita tempestivamente la zona rossa. Partiamo dal piano pandemico.



Secondo quanto raccolto dal Fatto, la tesi della perizia della procura di Bergamo è che sì il piano pandemico del 2006 era vecchio e da aggiornare, ma sarebbe stato comunque utile applicarlo quando l’Oms diramò l’allerta polmoniti sconosciute che facevano morti in Cina. Governo e Regioni, secondo i periti, dovevano attivarsi da allora per le scorte di dispositivi di protezione, misure di sorveglianza e verifica di posti nelle terapie intensive, oltre ad una serie di adempimenti che sono mancati. Per i periti non è vero che non c’era un un “manuale” per affrontare il Covid, come sostenne l’allora ministro della Salute Roberto Speranza. Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità (Iss) ha dichiarato di aver letto il piano pandemico solo nel maggio 2020. Ne fecero un altro a febbraio, secretato per non allarmare gli italiani, ma era comunque tardi.



LA MANCATA ZONA ROSSA DI ALZANO E NEMBRO

I pm di Bergamo hanno posto la questione del piano pandemico all’attenzione anche del medico legale Ernesto D’Alojia, che insegna a Sassari, e a Daniele Donati, ex direttore dell’Asl di Pavia, oltre che ad Andrea Crisanti. I consulenti della procura hanno indicato i possibili responsabili della mancata attuazione del piano: i vertici del ministero della Salute, dell’Iss, del Comitato tecnico scientifico (istituito però solo a febbraio) e della direzione Welfare di Regione Lombardia. Secondo quanto rivelato dal Fatto Quotidiano, sono state messe in fila le presunte contraddizioni e smontata la giustificazione che il vecchio piano pandemico non fosse adatto perché relativo ai virus dell’influenza. Peraltro, l’Oms aveva proprio consigliato ai governi di applicare i piani antinfluenzali. Nel mirino anche Claudio D’Amario, allora direttore della Prevenzione, che dall’analisi del verbale avrebbe evidenziato di non avere chiare le procedure del piano che lui avrebbe dovuto mettere in atto. Giuseppe Ruocco, allora segretario generale, ignorò il piano. Non avrebbe fatto anche neppure Luigi Cajazzo, all’epoca direttore del Welfare della Regione Lombardia. Dalla relazione dei periti è emerso che avrebbe dovuto applicare il piano pandemico regionale del 2009 dopo aver ricevuto la comunicazione ministeriale con l’allerta dell’Oms, come i suoi omologhi delle altre Regioni. C’è poi il rebus della mancata zona rossa di Alzano Lombardo e Nembro. Avvalendosi di modelli matematici, i periti hanno spiegato che si sarebbero evitati 4mila morti se la chiusura fosse stata decisa il 27 febbraio. Nello specifico, ad Alzano e Nembro i morti sarebbero stati poco più che dimezzati e ridotti di un terzo con la chiusura il 3. Invece si attese il 7 marzo per chiudere tutta l’Italia dal 9 marzo. Proprio l’allora premier Giuseppe Conte il 2 marzo in una riunione estesa del Cts aveva invitato ad una “parsimonia” sulle zone rosse per non creare “problemi sociali ed economici“, secondo le risultanze dell’indagine. Il 5 marzo comunque Speranza firmò una bozza del decreto per Alzano e Nembro che rimase tale, mentre il Viminale mandò una colonna di mille carabinieri per blindare i paesi, salvo poi essere richiamati.



“LE RESPONSABILITÀ DI REGIONE LOMBARDIA”

Agli atti dell’indagine c’è anche una mail del 28 febbraio del governatore lombardo Attilio Fontana che dimostrerebbe la consapevolezza della dinamica del contagio, senza però che portasse a chiedere ulteriori misure al governo centrale. Avrebbe potuto agire, perché la Regione Lombardia così come i sindaci, però meno informati sull’evoluzione dell’epidemia, potevano istituire le zone rosse. Lo stabilisce l’articolo 1 del decreto legge n. 6 del 23 febbraio 2020. Non c’era neppure bisogno del decreto legge, infatti i periti hanno rievocato le norme generali sul Servizio sanitario nazionale. I periti hanno poi fatto un calcolo interessante per mettere a confronto i contagi all’ospedale di Alzano prima del 7 marzo e dopo quella data, quando arrivarono medici e infermieri dell’Esercito a dare una mano ai colleghi civili, insegnando loro come gestire l’emergenza. La media passò da 2,3 a 0,3 infezioni al giorno all’interno dell’ospedale. Non c’erano tamponi sufficienti, perché mancavano soprattutto reagenti, ma la perizia della procura di Bergamo ha rilevato che potevano diagnosticare il Covid sottoponendo a Tac i malati affetti da polmoniti e sindromi respiratorie. Ma la perizia esclude che la mancata chiusura dell’ospedale abbia concorso in maniera determinante a far esplodere la pandemia nella Valsriana. Serviva la zona rossa. Ora i pm di Bergamo stanno preparando le conclusioni dell’inchiesta, dunque il Fatto esclude una generale richiesta di archiviazione del fascicolo per epidemia colposa.