Con il susseguirsi dei mesi, e in condizioni socialmente ed economicamente sempre meno sopportabili a causa del lockdown, ci si comincia a chiedere con insistenza se qualcosa di più e di meglio avrebbe potuto essere fatto per contenere la pandemia da Covid-19. Uno studio indipendente della Johns Hopkins University rivela che l’Italia è prima al mondo per numero di morti dovuti al virus rispetto agli abitanti. In Italia, infatti, sono 111,23 ogni 100 mila abitanti, mentre in Spagna sono 104,39, in Gran Bretagna 99, 59 e negli Usa 94,97. Anche in termini assoluti il numero dei morti resta sempre molto elevato: sono 67.894 persone.



Eppure, c’era, doveva esserci per forza, un Piano pandemico elaborato per prendere le decisioni giuste nel momento giusto, fronteggiando l’emergenza alla luce di una esperienza maturata nello studio e nella valutazione delle alternative possibili. Un Paese non può farsi trovare così sprovvisto di strumenti essenziali per combattere la sua guerra contro agenti così aggressivi e così veloci nel contagio e nella diffusione.



E di fatto il piano pandemico italiano c’era, ma non era stato aggiornato fin dal lontano 2006. Nel 2005 la minaccia di una pandemia mortale era un argomento che occupava le copertine della stampa internazionale. La cover story di Time, del 17 ottobre 2005, riportava l’allarme degli esperti di sanità sulla pandemia da influenza aviaria, che stava arrivando, e che avrebbe ucciso milioni di persone, devastato l’economia mondiale causando la chiusura (allora si chiamava shutdown, oggi lockdown, ma la sostanza è la stessa) di tutto il mondo industrializzato e non. In quegli anni il nostro ministero della Salute aveva messo a punto il “Piano nazionale di preparazione e risposta ad una pandemia influenzale”.



Ma nei 5 anni successivi, nessuno al ministero tra i ministri che si sono succeduti, direttori generali di indubbia competenza, task force di ogni tipo e genere, comitati tecnico- scientifici, tavoli di esperti… nessuno ha sentito il bisogno di aggiornare il Piano nazionale pandemico. Il vecchio Piano era nel cassetto, sul sito del ministero, forse in qualche relazione tecnica trasmessa al Cdm o al Parlamento. C’era, ma era vecchio e obsoleto. Proprio come accade con molti altri Piani nazionali che nessuno si affretta ad aggiornare, nonostante siano scaduti e nonostante le tante associazioni interessate premano per un loro adeguamento, senza ricevere risposta adeguata.

Penso al Piano nazionale per le malattie rare, approvato nel 2013, scaduto nel 2016 e ancora in attesa di essere pubblicato nel necessario e legittimo aggiornamento. Eppure sono oltre 200 le associazioni di pazienti che, raccolte in una mega-associazione come Uniamo, lo reclamano! Penso al Piano nazionale per l’oncologia, anche lui scaduto, e in attesa di rinnovo, nonostante il pressing della Federazione delle associazioni di volontariato, la Favo. Penso al Piano nazionale per la disabilità o a quello per la cronicità… Sembra che una volta elaborati, dopo possano vivere di vita propria in una sorta di auto-aggiornamento che li rende automaticamente efficaci, senza bisogno di tener conto dei mutamenti socio-economici, del diverso clima culturale, dell’evoluzione tecnico-scientifica, delle sue conquiste e degli ostacoli in cui si imbatte.

La potente burocrazia ministeriale non sente l’urgenza di stare in dialogo continuo con le associazioni dei pazienti, con le società scientifiche, con lo stesso Parlamento. A lei basta avere in un qualche cassetto un qualsiasi piano nazionale su un qualunque tema, per potersi giustificare dicendo: il piano c’è, senza dover precisare a quando risale e con quale gap deve misurarsi davanti ai cambiamenti avvenuti nel frattempo. È la insopportabile banalità del lavoro di una burocrazia, che non riesce a vedere persone davanti ai suoi ritardi, alle risposte non date, alle omissioni con cui elude le responsabilità che sarebbe comunque giusto assumersi.

Eppure, davanti all’epidemia di Ebola, nel 2015, la nuova emergenza sanitaria aveva rivelato come il mondo non fosse affatto preparato ad affrontarla, e l’Italia era tra questi paesi. Sarebbe dovuto scattare un grido d’allarme dal momento che il Piano pandemia influenzale del ministero della Salute era ancora lo stesso del 2006 e una trasmissione televisiva come Report lo aveva denunciato con forza, attirandosi le critiche di Ranieri Guerra che aveva contestato Report, affermando che da ex direttore della prevenzione del ministero della Salute aveva lasciato un piano pandemico aggiornato a fine 2016. Il problema però è che quel piano, presente nel sito del ministero, era ancora lo stesso del 2006. Non c’è dubbio che il piano pandemico, ancor vecchio e non aggiornato, è stato ignorato; il virus, entrato in Italia, ha circolato liberamente per settimane, mentre le competenze epidemiologiche italiane non sono state attivate con la dovuta tempestività.

Si è scambiata una emergenza di sanità pubblica con una emergenza di tipo clinico, centrata sulla carenza di terapie intensive. All’inizio, non sono stati isolati casi, non sono state fatte le indagini epidemiologiche, non sono stati fatti i tamponi ai pazienti, i medici sono andati in giro senza protezione individuale e soprattutto hanno involontariamente diffuso il contagio.

La pandemia ha preso tutti di sorpresa, la popolazione, gli esperti, i nostri governanti e soprattutto chi si occupa di sanità. Eppure, tutti sanno che non si può abbassare la guardia nei confronti delle malattie infettive. Il risultato è stato che, quando la pandemia è esplosa, gran parte delle risorse disponibili sono andate a potenziare il sistema ospedaliero e di terapia intensiva, con la ribalta mediatica occupata da virologi, esperti in vaccini e di terapia intensiva, mentre ci sarebbe bisogno di capire dove abbiamo sbagliato o cosa si potrebbe fare affinché in futuro i piani pandemici vengano applicati con successo. È ovvio che qualcosa non ha funzionato e bisogna cercare di capire cosa, cominciando da una seria analisi delle debolezze del sistema attuale, invece il ritornello serale che i Tg ci trasmettono con monotona ripetitività si riduce a dire semplicemente quanto siamo bravi: forse siamo i migliori del mondo, ma non è proprio così.

Basta riflettere su tre dati chiave: 1. in Italia si muore di più che negli altri Paesi; 2. dovevamo essere i primi a scoprire, testare e distribuire il “nostro” vaccino, prodotto dalla azienda di Pomezia Astra-Zeneca insieme ai ricercatori di Oxford. In realtà Pfeizer e Moderna sono arrivati prima, con un livello di efficacia-efficienza del vaccino superiore al 95%, mentre il vaccino italiano arriva al 60%; 3. infine se consideriamo come il virus sia riuscito a circolare indisturbato per settimane e soprattutto quanti operatori sanitari abbiano contratto l’infezione, trasformando gli ospedali nelle maggiori fonti di infezione, è evidente che c’è stato un problema di sottovalutazione del rischio infettivo.

Urge quindi un sistema integrato di sorveglianza epidemiologica. Una volta entrato in un paese il Covid-19 si mimetizza bene, imitando la comune influenza e utilizzando un’alta percentuale di portatori asintomatici. In futuro bisognerà tenerne conto, sarà necessaria una rete di protezione a più maglie, capace di identificare il virus quando ha ancora una circolazione limitata. Ma questo lo diceva anche il vecchio, e inascoltato, Piano pandemico: il primo obiettivo consisteva infatti nell’“identificare, confermare e descrivere rapidamente casi di influenza causati da nuovi sottotipi virali, in modo da riconoscere tempestivamente l’inizio della pandemia”. Questo obiettivo prevedeva l’integrazione di diversi sistemi di sorveglianza epidemiologica affidati a una regia nazionale.

Allo stesso tempo bisognerà essere innovativi, adottando nuovi metodi sperimentati da altri paesi. Una volta stabilito a chi indirizzare le attività di sorveglianza (contatti, soggetti sintomatici, staff sanitario, ammissioni ospedaliere, sospetti identificati dai Mmg, etc.), occorrerà utilizzare nuove tecnologie (termo scanner, test drive-through), adottare strumenti di tracciatura dei contatti tramite telefonino per monitorare condizioni fisiche e mobilità, adottare misure diverse di isolamento per proteggere le persone più a rischio senza esasperare chi ha un basso livello di rischio. Oltre ai Dpi, i ventilatori e il personale in questa crisi è mancato qualcosa di meno “materiale”, ma altrettanto importante: la consapevolezza del rischio infettivo. Il nostro personale sanitario ha perso la capacità di lavorare in un contesto di alto rischio infettivo. La consapevolezza del rischio infettivo non è solo necessaria per evitare la diffusione del virus in ambiente sanitari, ma è un modo per rendere più efficiente un sistema di sorveglianza che si giova anche dell’intuizione del personale di sanità pubblica e di tutti gli operatori sanitari.

Sono di queste ore altri dati essenziali per capire cosa sia accaduto nei mesi scorsi: in 5 anni sono stati chiusi 74 ospedali e perse 22mila unità di personale. Calo anche dei medici di famiglia: se ne sono persi oltre 2mila. Con queste condizioni la pandemia ha trovato terreno fertile e mancanza di sentinelle, ha potuto fare stragi e solo ora si comincia ad intravvedere, ad esempio, l’urgenza di disporre di Piani nazionali, sempre aggiornati e consapevoli.

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