“Stiamo chiedendo alle Regioni, in attuazione al nuovo Piano pandemico nazionale, di costruire dei piani di preparazione. Dentro questi piani è prevista la necessità di tenere pronti dei presidi anti-pandemici”. L’annuncio del ministro Roberto Speranza, nel corso di un’audizione presso la commissione Affari sociali in merito al tema della riforma dell’assistenza sanitaria territoriale nell’ambito del Pnrr, offre l’occasione per provare a valutare il “Piano strategico-operativo nazionale di preparazione e risposta a una pandemia influenzale (PanFlu) 2021-2023”, pubblicato in Gazzetta Ufficiale a fine gennaio. “Preparedness” (comprende tutte le attività volte a minimizzare i rischi posti dalle malattie infettive e a mitigare il loro impatto durante un’emergenza di sanità pubblica) e “Readiness” (la capacità di rispondere in modo tempestivo ed efficace alle emergenze/disastri mettendo in pratica le azioni realizzate nella preparedness) sono le due parole chiave.
Ma tali restano, “in un documento che è teorico e generico – ci spiega Girolamo Sirchia, ex ministro della Salute e promotore dell’ultimo piano pandemico nazionale, era il 2006, da allora mai più rinnovato dai governi successivi –. Assomiglia molto ad altri piani che girano in Rete. Ma non basta enunciare dei princìpi, non è quello di cui abbiamo bisogno. Fare un piano significa essere in grado la mattina successiva di poter già intervenire, mettendo le risorse necessarie”.
Che cosa non la convince del nuovo Piano pandemico?
Delinea un quadro generale di quello che andrebbe fatto per prepararsi ad affrontare prossime pandemie, ma non entra nello specifico, tanto meno nel dettaglio di quello che va effettivamente organizzato. Il documento rimanda ai piani pandemici regionali.
Forse perché in Italia la sanità è materia che fa capo alle Regioni?
Può essere, di fatto, però, il Piano scarica su di loro l’onere di tradurre in concreto le indicazioni generali. Ma a mancare clamorosamente nel documento del ministero della Salute è soprattutto il disegno complessivo, l’impianto di sistema.
In che senso?
Come fa lo Stato ad assicurarsi che le Regioni facciano bene i loro piani? Perché i vari piani non vengono coordinati a livello nazionale? A mio avviso il fatto di non avere un centro di coordinamento che lavori con le Regioni – uno dei punti qualificanti del piano del 2006 – è un errore.
Preparazione e prontezza sono le due parole chiave. Quanto oggi siamo preparati e pronti?
Di questa pandemia qualcosa abbiamo capito, ma certamente non abbiamo preparato niente.
Ha notato qualche carenza che andrebbe corretta?
Sì. Per esempio, il team sulla sorveglianza internazionale viene solo citato di sfuggita. La sorveglianza invece è un punto fondamentale, è un’azione irrinunciabile, ogni Stato la deve organizzare, ma il tutto deve avvenire all’interno di una rete internazionale, facendo parte di un team, perché è importante sapere cosa fanno gli altri paesi, dove sorgono eventuali focolai epidemici, di quale gravità. Questo era un compito che avevo affidato all’allora direttore della prevenzione del Centro di controllo delle malattie infettive in Italia, Donato Greco. Quindi la sorveglianza va condivisa e finanziata, perché i buoni propositi senza soldi non fanno molta strada. E quello delle risorse è un altro punto dolente.
In effetti nel piano c’è un passaggio che recita: “Lo squilibrio tra necessità e risorse disponibili può rendere necessario adottare criteri per il triage nell’accesso alle terapie” e “quando la scarsità rende le risorse insufficienti rispetto alle necessità, i principi di etica possono consentire di allocare risorse scarse in modo da fornire trattamenti necessari preferenzialmente a quei pazienti che hanno maggiori probabilità di trarne beneficio”. Come lo interpreta?
Se si pensa di affrontare una pandemia con i fichi secchi, la pandemia vince in partenza. In due anni la pandemia ha assorbito 250 miliardi, e non è finita. Ovvio che prepararsi a una nuova pandemia non costa 250 miliardi, ma se si inizia dicendo che i soldi sono pochi, il piano nasce già morto. E’ gravissimo. Come si finanziano il lavoro dei centri regionali, i contatti internazionali, la comunicazione, le esercitazioni, senza le quali non si fa niente?
Ci sono altri punti deboli?
Ripeto, il principale è che non esiste un sistema: fare le esercitazioni, garantire una vigilanza stretta, mettere in piedi laboratori richiede un mare di lavoro e di soldi. Chi vi provvede? Come? E dov’è la struttura organizzativa e digitale?
A proposito, come andrebbe strutturata la governance delle strategie anti-pandemiche? A chi spettano la leva e la responsabilità del comando dal punto di vista operativo?
In questa pandemia è emersa un’antitesi Stato-Regioni paurosa, non possiamo continuare a mantenere questa dissociazione. Il primo step, dunque, è ripristinare al più presto un Cdc nazionale: sono le stesse esperienze internazionali a suggerirci che è il modello giusto. Nel 2006 il decreto legge 81 aveva istituito un Cdc centrale che lavorava con altri centri a livello internazionale e con le Regioni a livello locale. Attenzione, il Cdc deve essere un team dedicato, competente, con poteri e risorse ben definiti, indipendente dalla politica e che lavora tutti i giorni per essere sempre pronto a fronteggiare una pandemia.
In questi due anni di Covid la comunicazione è stata una vera e propria Caporetto. Il piano prevede dei correttivi?
No, anche in questo ambito, che è stato un disastro, il piano sorvola, ma la comunicazione è strategica. Prenda il piano elaborato dalla Johns Hopkins, che tra l’altro è fatto molto bene: alla comunicazione, sia alla popolazione che al personale sanitario, dedica un sacco di pagine. La comunicazione del rischio è un’attività difficile, perché seminando dubbi – basti ricordare il balletto mascherine sì-mascherine no o il caos AstraZeneca –, si raccoglie paura. Bisognerebbe evitare i talk show dove presunti esperti pontificano o litigano tra loro, ci vuole un portavoce autorevole e preparato che parla all’opinione pubblica. E anche il personale sanitario va informato e formato in maniera capillare, perché non tutti hanno la preparazione adeguata ad affrontare una pandemia.
All’inizio della pandemia l’Italia si è trovata sprovvista di Dispositivi di protezione individuale. Su questo punto delicato cosa prevede il piano 2021-2023?
E’ molto preoccupante che si parli solo di sfuggita di attivare aziende strategiche. Per assoluta imprevidenza ci siamo ritrovati che non avevamo mascherine né respiratori a sufficienza, perché abbiamo delegato a questa produzione le aziende del Sud-Est asiatico, che se chiudono i rubinetti, come ha fatto la Cina, ci mettono nei guai. Giusto allora porsi il problema di avere delle aziende strategiche in grado di produrre ciò che serve, ma non basta dirlo, bisogna attivarsi, specificando di cosa abbiamo bisogno e quante risorse vengono investite.
All’interno di un amplissimo ventaglio di interventi, che spaziano dai piani regionali alla formazione, dalle misure di controllo alle stime sui fabbisogni di farmaci e dispositivi medici, che cosa sarebbe necessario attivare con urgenza?
Sarebbe stato necessario partire prima, sono già passati due anni.
(Marco Biscella)
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