Il cosiddetto Piano Speranza, presentato recentemente dal ministro della Salute come via maestra per accedere alle risorse che l’Unione Europea metterà a disposizione dell’Italia con il Recovery fund, non è un piano pensato solo per fronteggiare l’emergenza, ma un vero e proprio progetto di riforme, con cui avviare l’indispensabile processo di rinnovamento del nostro Ssn, mettendo fine alla lunga stagione dei tagli alla sanità.



In questi mesi di faticoso e doloroso lockdown è risuonato come un mantra, una sorta di slogan che chiedeva di spostare attenzione e risorse sul territorio, per una medicina di prossimità, che potesse raggiungere il paziente a domicilio. Il territorio era diventato parola chiave nei dibattiti televisivi, sulla stampa, in ogni congresso, dovunque si ripeteva questa esigenza, in cui sembravano riassumersi e comporsi due degli obiettivi principali del Ssn: la prevenzione e la riabilitazione. Nel processo di diagnosi e cura infatti c’è sempre un prima, prevenire, e un dopo, riabilitare e restituire il paziente alla sua normalità, mettendo in gioco anche gli aspetti di tipo socio-sanitario. Ma proprio per questo vale la pena analizzare a fondo almeno una delle possibili soluzioni su cui Speranza sembra investire molte delle sue aspettative: le cosiddette “Case della comunità” con medici di famiglia, specialisti e infermieri per offrire assistenza 7 giorni su 7 a orario continuato.



Sono certamente molti i vantaggi che lasciano intravedere, ma occorre avere il coraggio di immaginare anche le difficoltà che potrebbero subentrare. E per questo può essere utile fare un passo indietro e tornare ad una iniziativa analoga, lanciata con molto coraggio da Livia Turco, ministra della Sanità nel secondo governo Prodi. La Turco immaginò di poter dare vita alla cosiddetta “Casa della salute”, vicina al cittadino 7 giorni su 7 e 24 ore al giorno per rispondere ai nuovi bisogni di assistenza. A suo avviso, un vero e proprio pilastro della sanità pubblica da affiancare all’ospedale.



Il 22 marzo 2007, in un importante centro congressi di Roma, proposte e sperimentazioni furono messe a confronto coinvolgendo tutte le Regioni, gli operatori sanitari, le forze sociali e le associazioni dei cittadini, chiamati a svolgere un ruolo di protagonisti nel processo di potenziamento del sistema di cure primarie di cui la Casa della salute sarebbe stata parte di rilievo. Livia Turco, allora ministro della Salute, affrontava il tema della “Casa della salute come luogo di ricomposizione delle cure primarie e della continuità di cura” e Filippo Palumbo, allora direttore della Direzione generale della programmazione sanitaria, dei livelli di assistenza e dei principi etici di sistema, lanciava “Le linee guida del ministero della Salute per l’accesso al co-finanziamento per la sperimentazione delle Case della salute”.

A distanza di oltre 13 anni di quella realtà così suggestiva, immaginata come una cerniera tra l’ospedale e la casa del malato, non è rimasto quasi nulla, se non un’intelligente analisi del problema e una suggestiva proposta di soluzione.

Vale quindi la pena che il ministro Speranza cerchi un confronto con la collega Livia Turco, per capire perché quel progetto, affascinante oggi come ieri, non è decollato al di là delle promesse e delle premesse. A proposito di Recovery fund, il tema risorse è, come si suol dire, necessario ma non sufficiente per spiegare le ragioni di maggiore o minore successo dell’iniziativa, che corre il rischio di restare solo una bella speranza, questa volta con la s minuscola.

Una delle possibili e plausibili spiegazioni sta anche nello specifico del profilo di formazione del medico di medicina generale, che a differenza di tutti gli altri specialisti, non si forma nella complessa rete universitaria e nei lunghi tirocini ospedalieri, ma matura la sua formazione in contesti a minore densità clinica. Lontano dal confronto, a volte duro, con colleghi di altre specializzazioni, alla ricerca della diagnosi esatta, filtrata dal lungo processo delle diagnosi differenziali. Il malato non chiede quasi mai al medico di famiglia una diagnosi che rifletta un livello di complessità che esce dall’ordinario. Preferisce andare in ospedale dallo specialista ad hoc e se mai chiede al medico di Mg la trascrizione delle ricette, il monitoraggio minuto dei segni e sintomi. Ma davanti al “problema” ha urgente bisogno dello specialista competente ed esperto. Possibilmente disponibile in tempi relativamente brevi, come accade spesso al pronto soccorso.

Se non si fa della Medicina di famiglia o Medicina generale una vera e propria specializzazione maturata, come tutte le altre, nei confini dell’ospedale ad alta complessità, non si riuscirà a trasferire al medico di medicina generale la competenza del medico generalista, che non è quella banalizzata del generico, destinato a riproporre le soluzioni prese in altri ambiti e ad altri livelli. D’altra parte, in un rapporto di parità con i colleghi specialisti come quello che si vorrebbe instaurare nelle cosiddette Case di comunità, occorre compiere una doppia operazione: elevare, e di molto, la specificità della competenza clinica del medico di Mg e far uscire dall’ospedale gli specialisti per una ricollocazione prestigiosa e remunerativa proprio sul territorio. Più tempo in ospedale al medico di Mg e più tempo sul territorio agli altri specialisti, in una contaminazione virtuosa in cui per osmosi i saperi trovano nuovi punti di equilibrio e di forza, a stretto vantaggio del paziente.

Se non si farà una rivoluzione gentile, ma chiara e forte sul piano della formazione di tutti, specialisti e medici di Mg, queste case resteranno ancora una volta un’utopia. Bella da raccontare, ma impossibile da realizzare. Qualcuno ci ha già provato! Ed era ministro della Salute anche lei: stesso orientamento politico, pari passione per il proprio ruolo, una buona dose di visionarietà per immaginare il cambiamento e indubbiamente coraggio per lanciare nuove sfide. Ma per far funzionare la proposta il segreto resta una volta di più: formazione, formazione, formazione!