Il pacchetto ambiente deciso dalla Commissione europea nei giorni scorsi, per i suoi contenuti e i cronoprogrammi che ne scandirebbero l’attuazione qualora fosse definitivamente approvato nella sua attuale formulazione, potrebbe incidere profondamente sull’assetto produttivo soprattutto di Paesi manifatturieri come Francia, Germania e Italia; pertanto sarà assolutamente necessario – come hanno ribadito più volte in quest’ultima settimana gli osservatori più attenti – che si presti grande attenzione anche ai probabili effetti (forse) socialmente devastanti di quelle misure.
Quelle disposizioni perciò dovranno essere analizzate in tutti i loro risvolti nei tempi tecnici e “politici” necessari, e poi essere approvate definitivamente nelle sedi comunitarie e nazionali, assumendole però con grande realismo e soprattutto trovando le soluzioni tecnologiche per consentire una transizione energetica che sia ordinata, con tempistiche e modalità adeguate.
Uno degli obiettivi più ambiziosi, ma anche discutibili, di quelle misure è, ad esempio, lo stop alle auto diesel e a benzina nel 2035: ma questo traguardo, se fosse raggiunto al di fuori di un grande disegno di politica industriale europeo e nazionale, necessario per accompagnare con robuste misure finanziarie, innovazioni di processi e prodotti e vasti provvedimenti di carattere sociale questa transizione “epocale” sulla propulsione dei veicoli, rischierebbe di scardinare dalle fondamenta il cuore del sistema manifatturiero dell’automotive nel nostro Paese (e non solo in esso), con conseguenze facilmente prevedibili sul piano occupazionale e, di conseguenza, sulla stessa tenuta sociale di larghe zone dell’Italia. Sarebbe a rischio, per intenderci, la Motor Valley dell’Emilia Romagna che è tuttora uno dei cardini dell’intera industria nazionale e che si accinge, anzi, a rafforzare il suo ruolo grazie a nuovi investimenti che vi sono stati annunciati nei mesi scorsi.
E l’industria della raffinazione potrà riconvertire a bioraffinerie – ammesso che fosse per loro conveniente – i grandi impianti italiani localizzati soprattutto nel Sud, o dovranno essere dismessi qualora fossero banditi anche i biocarburanti? E l’industria chimica di base che produce intermedi anche per il settore delle materie plastiche dovrà essere dismessa, ora che sono già in vigore misure anche contro alcune plastiche biodegradabili? E tutta la filiera tecnologica dell’oil&gas scomparirà coinvolgendo così nomi antichi e illustri dell’industria nazionale come, solo per fare un altro esempio, quello del Gruppo Nuovo Pignone di Firenze, oggi controllato dagli americani della Baker Hughes?
Allora come hanno sottolineato autorevoli esponenti della Confindustria bisognerà fare in modo che la transizione energetica – che come dice il Ministro Cingolani non sarà una “cena di gala” – non diventi invece il funerale dell’industria europea e in particolare di quei Paesi che, come il nostro, ne sono fra i player più competitivi.
Servirebbe intanto (e subito) un grande dibattito in Parlamento, nelle Regioni e nei Comuni su quelle misure che renda consapevoli tutti i cittadini, o almeno la loro stragrande maggioranza, di cosa significhi concretamente transizione ecologica con i suoi probabili effetti sulla vita di ogni giorno delle persone. Un dibattito promosso e guidato dal Governo Draghi che non alimenti però inutili logomachie o, peggio, pulsioni antindustrialiste, ma che approdi invece a conclusioni fondate su analisi scientifiche e previsioni tecnologicamente incontestabili.
Subito dopo il Governo e tutti i partiti, dialogando intensamente con i sindacati e le associazioni datoriali dell’industria, dovrebbero definire e approvare in Parlamento un grande piano industriale per l’Italia, proiettato al 2035 e con significative tappe temporali intermedie: un piano che si innesti sul Pnrr, che si confronti anche con gli stakeholder degli altri Paesi più industrializzati e che, con il consenso dell’Unione europea, riarticoli se del caso lo stesso Pnrr almeno in alcuni dei suoi macroobiettivi o “missioni”.
E nello scenario futuribile – che se non sarà governato con lucidità e tempistiche socialmente sostenibili rischierà di diventare veramente fosco per milioni di cittadini – l’Italia dovrà alzare la propria voce di secondo Paese manifatturiero dell’Ue nel suo sempre più turbolento contesto che, inoltre, dovrà ottenere anche a livello internazionale reciprocità di impegni da parte di grandi Stati che sembrerebbero non voler seguire, almeno in questa fase storica, l’Europa e i suoi intendimenti.
Al riguardo, infatti, pur apprezzando il comunicato unanime approvato l’altro giorno a Napoli dai ministri del G20 sull’ambiente – e non era scontato che accadesse – bisogna prendere atto con realismo che Cina, Russia e India non hanno accettato di rimanere sotto la soglia di 1,5 gradi di riscaldamento globale al 2030, e di eliminare il carbone dalla produzione energetica al 2025. Bisognerà pertanto attendere quanto scaturirà in autunno dalla Cop 26 che l’Italia ospiterà con il Regno Unito, sapendo però fin da ora che bisognerà mediare con pazienza e comprensione per le esigenze di quei Paesi che per estensione territoriale, popolazione e modelli di sviluppo in via di rafforzamento, non ritengono di potersi adeguare alle tempistiche proposte dall’Ue e ora accolte anche dagli Stati Uniti.
Ma lo si ripete, se la lotta al cambiamento climatico e la transizione energetica sono obiettivi condivisibili, bisognerà perseguirli puntando ad acquisire il massimo consenso sociale – e non solo a ottenere il plauso dei pasdaran dell’ecologismo radicale – e soprattutto offrendo articolati sostegni europei e nazionali ai settori strategici che saranno impegnati nel processo di decarbonizzazione.
Nessuno si illuda – a Bruxelles, come a Roma o a New York al Palazzo di vetro delle Nazioni Unite – che possano passare a livello planetario senza approfonditi dibattiti e senza il consenso di centinaia di milioni di persone provvedimenti che incideranno sulla carne viva di interi popoli, o almeno di grandi aggregati sociali, oggi impegnati nel funzionamento delle tante fabbriche che dovranno riconvertirsi o, più probabilmente, chiudere.
Ma se pure questa illusione fosse coltivata da chi continua a santificare le battaglie ambientaliste pur condivisibili di Greta Thunberg – cui peraltro per la giovanissima età ha sempre fatto difetto la piena comprensione di cosa significhi realmente la riconversione di un sistema industriale di dimensioni mondiali – i primi a opporsi con durezza e forse anche con violenti moti di piazza alla transizione ecologica sarebbero proprio coloro che rischiano di esserne colpiti da effetti potenzialmente devastanti, senza poter godere di alcuna protezione sociale, unita a un prospettiva di un nuovo futuro lavorativo condiviso. Per taluni aspetti una sorta di “neoluddismo”, non contro l’avanzare delle macchine tessili come nell’Inghilterra della prima metà dell’800, ma contro direttive e prescrizioni che nei prossimi anni rischierebbero di creare milioni di disoccupati in migliaia di fabbriche oggi in esercizio.
Non si indulga allora nelle Istituzioni comunitarie neppure per un attimo al radicalismo ambientalista, perché una gestione della transizione ecologica che finisse nei prossimi anni col rivelarsi maldestra nella sua impostazione e pessima nella sua gestione potrebbe portare a conseguenze catastrofiche per la stessa tenuta istituzionale dell’Unione europea: e sarebbe bene, a nostro avviso, esserne pienamente consapevoli. A ogni livello, in Italia e a Bruxelles.
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