Piante più resistenti alle malattie, più produttive e sostenibili: è questa la sfida che la viticoltura italiana può vincere grazie all’editing genetico. Lo dimostra il progetto che ci presenta la professoressa Sara Zenoni, docente di genetica agraria all’Università di Verona e tra i soci fondatori di EdiVite, prima azienda al mondo ad aver sviluppato e brevettato l’applicazione dell’editing genomico Dna-free nella vite con l’uso di cellule private di pareti e la rigenerazione ad intera pianta. Lo Chardonnay è stato editato con la tecnologia CRISPR-Cas9, quindi si tratta della prima sperimentazione in campo in Europa con viti editate. Rispetto alle viti tradizionali, dovrebbe avere il vantaggio di potersi difendere dalla peronospera senza l’utilizzo di fitofarmaci, mantenendo l’identità genetica del vitigno.



In un lotto di 250 metri quadri di proprietà dell’ateneo veneto, recintato e controllato 24 ore al giorno, sono state messe a dimora 5 piante di Chardonnay Tea, quindi editate con le Tecniche di evoluzione assistita, e 5 di controllo per verificare in campo la resistenza a uno dei principali agenti patogeni della vite, la peronospora e la possibilità di un minor uso di prodotti fitosanitari.



All’evento, che si è tenuto il 30 settembre, sono intervenuti anche il ministro Francesco Lollobrigida e il presidente della Commissione agricoltura del Senato Luca De Carlo, a conferma dell’importanza che il progetto curato dalla professoressa Sara Zenoni riveste per l’agricoltura italiana. «L’impegno del Governo va avanti, in Italia come in Europa, dove ci batteremo affinché l’UE si doti finalmente di un quadro normativo adeguato in materia di tecniche genomiche, in linea con le attuali esigenze del settore agricolo», ha dichiarato il ministro.

Professoressa Sara Zenoni, perché per la sperimentazione appena avviata si è scelto di usare la tecnologia CRISPR-Cas9?



La tecnologia CRISPR-Cas9 è la più innovativa al momento e permette in maniera molto precisa e mirata di modificare la sequenza nucleotidica di un gene. È una tecnica che rientra sotto la definizione di genome editing, che già si faceva prima con altre tecnologie, però molto più costose e in alcuni casi anche difficili da applicare, essendo basate su delle proteine che di volta in volta dovevano essere ridisegnate e riprogettate.

Invece, la tecnologia CRISPR-Cas9 è molto flessibile e facile da utilizzare: quello che si cambia è una sequenza di RNA che fa da guida nell’andare a localizzare la proteina che poi taglierà il DNA esattamente nella posizione di interesse. Quindi noi progettando semplicemente l’RNA – e ciò è molto più semplice rispetto al riprogettare ogni volta una proteina – riusciamo a indirizzare questo complesso che andrà appunto a tagliare il DNA, a creare la mutazione, nel punto preciso.

Inoltre, è meno costosa perché la sintesi dell’RNA si fa tranquillamente in laboratorio, è molto veloce, ci sono dei kit da acquistare relativamente economici. Bisogna capire esattamente qual è la sequenza che vogliamo andare a modificare, editare in questo caso, e progettare l’RNA in modo che sia specifico. Questo è un po’ il limite, ma ci sono molti software, lo si fa e nel momento in cui c’è l’RNA possiamo applicare questa tecnologia alla nostra vite.

Cosa è stato cambiato in queste piante e a qual fine?

Ci siamo occupati di una di una delle malattie, tra le più importanti, che è la peronospora, a cui lo chardonnay è sensibile. L’idea era di andare a cercare un vitigno che fosse importante a livello nazionale, molto coltivato e una varietà che si presta a questo tipo di applicazione, perché tra tutte lo chardonnay è quella che fa meno fatica ad essere messa in laboratorio a crescere in condizioni controllate.

Considerando che sono noti i geni di suscettibilità – quelli che hanno una funzione biologica che sembra in qualche modo favorire l’entrata del fungo nei tessuti della pianta, e quindi aiutano in certo modo l’infezione – se li mutiamo, rendiamo la pianta meno suscettibile. Quindi, abbiamo mimato questa mutazione che comunque la natura ci ha fornito.

Abbiamo riproposto nel genoma della vite la mutazione per capire se le conferiva resistenza e i dati in laboratorio ce l’hanno confermato: le piante editate in questo gene sono risultate più resistenti, significativamente più resistenti.

Non è una resistenza al 100%, perché comunque ci sono più geni coinvolti, però abbiamo un 50% di resistenza in più, questo è già molto. Adesso dobbiamo effettivamente validare e confermare questi risultati sul campo.

Quando saranno disponibili i primi dati e quali sono le prossime tappe di questo progetto?

Abbiamo piantato la vite a fine settembre, anche se l’ideale sarebbe stato farlo in primavera, ma non avevamo ancora in mano tutti i dati del sequenziamento del genoma e di resistenza in vitro, quindi abbiamo dovuto aspettare. In più ci sono voluti tre mesi per avere il via libera per messa in campo delle piante, ed è arrivato a settembre. Non è il momento ideale, ma ci abbiamo provato lo stesso.

C’è poi da considerare che sono viti che escono dalla serra; quindi, abituate a un ambiente controllato con luce e condizioni perfette, ma ci auguriamo che superino l’inverno. Se così sarà, avremo i dati sulle soglie di riduzione dell’infezione a maggio, perché di solito la peronospora comincia a farsi sentire in quel periodo.

Le piante sono in un campo dove non saranno fatti i trattamenti. Abbiamo posizionato vicino alle piante editate quelle di controllo, che hanno subìto lo stesso processo di coltivazione in vitro ma senza l’editing; quindi, valuteremo in campo il grado di resistenza.

Se siamo fortunati qualcosina ci sarà la prossima estate, sicuramente nel 2026 per fare il test sul vino: ci serve almeno un anno e mezzo affinché la pianta si adatti bene al campo, possa fare delle uve mature al punto giusto per poter essere vinificate.

Dal punto di vista organolettico o nutrizionale cambia qualcosa nella produzione da queste colture? In che modo potrebbe rivoluzionare il settore della viticoltura italiana?

La risposta teorica è che non cambierà nulla, perché noi abbiamo sequenziato tutto il genoma, ma non abbiamo toccato nulla per quanto riguarda i geni che sono coinvolti nello sviluppo della bacca, della maturazione e nella sintesi e accumulo dei composti di metaboliti secondari che danno gli aromi e conferiscono la condizione organolettica. Il genoma è rimasto identico e il gene di suscettibilità su cui siamo intervenuti non ha nulla a che fare col processo di maturazione, quindi teoricamente non cambierà nulla.

Chiaramente dobbiamo testare in campo e faremo le prove sui grappoli. È ovvio che la prova finale sarà la vinificazione in campo rispetto al controllo, però mi sento abbastanza tranquilla nel dire che questo gene non ha nulla a che fare con tutto il processo di maturazione, per cui non ci aspettiamo cambiamenti.

Ci sono rischi associati all’uso dell’editing genomico nel miglioramento delle colture? Alcuni temono impatti imprevisti sulla biodiversità…

Noi vogliamo preservare la biodiversità e queste tecnologie la favoriscono, perché se noi lasciassimo tutto alla selezione naturale, a questi eventi legati al cambiamento climatico, alcuni vitigni dovrebbero essere sostituiti, perché non sono più adatti a queste condizioni.

Trovando e identificando i meccanismi che regolano, ad esempio, la fenologia e lavorando su quegli aspetti che la rendono più corta o più lunga in base ai cambiamenti climatici, potremmo preservare e mantenere i vitigni autoctoni che sono cresciuti in certi ambienti, semplicemente aiutandoli ad adattarsi alle nuove condizioni.

Francamente non riesco neppure a capire questi timori, perché queste tecniche servono semplicemente ad aiutare le piante a far fronte alle problematiche e agli stress che possono colpirle. È il cambiamento climatico a poter invece compromettere la loro persistenza in quegli ambienti.

Quindi, l’editing genomico in agricoltura può contribuire alla lotta contro il cambiamento climatico?

Assolutamente sì, ma tutto sta nel cercare i geni giusti. La vite ha 30mila geni, ma è stata chiarita la funzione solo per alcuni di essi, per cui tanta ricerca di base deve essere ancora fatta nella vita e quindi nel momento in cui sapremo quali contribuiscono a determinati processi biologici, potremo effettuare le mutazioni e far sì che questi geni, ad esempio, si accendano o si spengano in modo diverso e con tempistiche differenti per bypassare il problema che la crisi climatica sta creando.

Ad esempio, l’accelerazione di maturazione di fatto crea conseguenze a livello qualitativo nelle uve, perché non maturando più al momento giusto a volte ci si rimette in qualità. Riuscendo a far rispettare il tempo giusto della fenologia, potremmo davvero aiutare le nostre piante a far fronte al cambiamento. Ciò vale anche per siccità e ondate di calore anomale. Ci sono studi in corso per capire quali sono i geni che possono rendere la pianta più resistente alla carenza idrica.

In base alla sua esperienza, i produttori di vino percepiscono i benefici delle Tea o prevale lo scetticismo?

La mia esperienza è particolarmente positiva, perché noi abbiamo proprio fatto nascere lo spin-off Edivite all’interno dell’università grazie proprio al fatto che dei produttori sono venuti a cercarci. Quando hanno saputo che a Verona si mettevano in piedi questi protocolli e queste attività, grazie anche agli studenti che sono usciti dal mio laboratorio e sono andati a lavorare in queste aziende, sono venuti da noi, abbiamo tenuto lezioni divulgative e hanno compreso i benefici.

Infatti, sono stati loro a proporre a noi di applicare queste nuove tecnologie per far sì che la vite possa essere trattata con una minore quantità di fitofarmaci. Loro hanno detto “noi ci crediamo, non abbiamo paura, non abbiamo scetticismo, noi vogliamo che le viti siano più resistenti”. Questa è la mia esperienza personale, ma può cambiare anche in base alle realtà. Ad esempio, possono esserci piccole aziende con produttori meno aperti o che fanno più fatica a capire quelli che sono comunque argomenti non facili da digerire. Non è banale neppure spiegarlo.

Poi c’è lo spauracchio degli OGM, diffuso in maniera veramente assurda, lo dico da genetista. Hanno spaventato le persone in una maniera ingiustificata, bisognerebbe valutare il prodotto finale, il metodo con cui lo fai, ma c’è stato un grande problema, perché l’informazione ci ha remato contro in tutti i modi. Anche i professori che insegnano scienze a scuola molte volte presentano gli OGM come il male assoluto, a volte anche confondendo gli studenti. Anzi, gli OGM aiuterebbero a non fare coltivazioni intensive e non trattare le piante con tanti farmaci. Non parliamo di piante tossiche o inquinanti, ma con caratteristiche migliorate, che possono produrre più e meglio con l’impiego di meno chimica nei campi, quindi anche sostenibili.

Tutti vorremmo andare verso un mondo biologico, il problema è che lo devi fare curando la malattia, non il sintomo, e la genetica cura la malattia, mentre il biologico è un palliativo per usare meno prodotti, ma di fatto la pianta comunque si ammala, allora si cerca di tamponare un pochino, ma non la rendi resistente. Così magari dei trattamenti biologici un anno vanno bene, l’anno dopo c’è una perdita completa. Anche i produttori del vino nel Veneto hanno provato a usare il biologico, ma hanno avuto delle perdite pazzesche, infatti tanti hanno rinunciato. Invece, andrebbero abbinati, piante migliorate geneticamente con biologico, allora sì che la viticoltura sarebbe sostenibile.

Da docente di genetica agraria, cosa rappresenta questa sperimentazione per la ricerca?

In questa ricerca sono riuscita a metter dentro tutte le mie competenze, quello che ho studiato in tutti gli anni del mio percorso, dalla laurea magistrale al dottorato di ricerca, sono finalmente riuscita a trovare un senso a tutto lo studio che ho fatto e vedo finalmente un prodotto che può davvero aiutare la viticoltura ad essere sostenibile.

Come ricercatrice nel settore della genetica sono molto fiera e devo dire anche molto fortunata a fare questo lavoro perché mi piace tanto, mi piace la parte teorica, ma vedo quella pratica e sono molto contenta come docente di andare in aula e parlarne ai miei ragazzi, perché do loro una speranza e una prospettiva, visto che i nostri studenti hanno bisogno di prospettive, oltre che di nozioni tecniche, e di capire che quello che studiano può essere utile un giorno a migliorare la vita di tutti. Quindi, direi che è una soddisfazione a 360 gradi e per la ricerca italiana rappresenta un traguardo importantissimo.

La ricerca italiana è all’avanguardia in Europa nella sperimentazione in campo delle Tea, lo è anche a livello mondiale?

Sì, io parlo nell’ambito della viticoltura. Le TEA si stanno applicando in tantissime specie vegetali, ma ci sono livelli di difficoltà diversi a seconda delle piante, ad esempio il pomodoro o comunque le piante annuali sono più semplici da trattare in laboratorio.

Grazie a questo spin off siamo diventati un bel punto di riferimento anche a livello mondiale, ad esempio collaboriamo con un’azienda californiana che produce vino, la Gallo, che lavora sul Cabernet Sauvignon, abbiamo contatti in Francia, si sono rivolti a noi cileni, dal Sudafrica… Sì, mi sento di poter dire che nell’applicazione di questa idea noi siamo molto all’avanguardia.

Quali altri progetti ha EdiVite in cantiere?

Lavoreremo anche su altre varietà, dopo essere partiti con lo chardonnay. La prossima ad uscire sarà sicuramente la varietà Glera del Prosecco, altrettanto importante per il Veneto, ma stiamo lavorando anche su Merlot, Falanghina, Aglianico in collaborazione con l’Università di Napoli.

Da un lato vogliamo estendere questa tecnologia a diverse varietà di interesse sia locale nazionale, ma anche internazionale, aumentando la specificità dei protocolli perché ogni varietà ha le sue caratteristiche, dall’altro approfondire anche altri aspetti. Non solo la resistenza ai patogeni, ma ad esempio anche allo stress idrico, cosa che già stiamo facendo con Gallo. Vogliamo lavorare anche su aspetti qualitativi, quindi sulla possibilità di lavorare su sentori, aromi finali del vino… Ci sono vari livelli, non da ultimo lavorare anche su altre specie sulle quali per le quali non c’è tantissimo al momento, ma che soffrono comunque di attacchi dai patogeni e di malattie molto importanti.

È un lavoro lungo e complesso…

C’è tantissimo da fare, dobbiamo anche pensare di poter ampliare la nostra competenza e l’ambito su cui stiamo lavorando, ma i vertici politici, anche a livello europeo, dovrebbero capire che se arriviamo sempre dopo gli altri – come Usa e Cina – poi ci arriveranno le piante editate da lì e prenderanno il nostro mercato. Gli altri Paesi hanno una legislazione che permette in maniera molto più semplice ai ricercatori di sperimentare in campo e poi di commercializzare le piante editate.

Ne parlavamo col ministro Lollobrigida e con il senatore De Carlo, entrambi molto favorevoli. Abbiamo detto loro che abbiamo le competenze, ma devono aiutarci. Perché avere in uno scrigno diamanti e pietre preziose, ma non usarle? Non ha senso neppure avere tutti questi corsi di laurea nelle biotecnologie per poi vedere gli studenti andare all’estero per realizzarsi. Ben venga l’esperienza all’estero, ma è molto importante che contribuiscano allo sviluppo della ricerca italiana. Dovrebbero veramente darsi una mossa. Spero che questa svolta serva anche a far capire loro che bisogna velocizzare un po’ la legislazione.

Intanto è appena cominciata una bella avventura con il progetto sulle piante di Chardonnay con Tea.

Sembrava la tappa finale, quella di aver messo le piante in campo, ma ci rendiamo conto che adesso invece comincia il bello.

(Silvana Palazzo)