L’asta aperta per Borsa Italiana ne ha rivelato il valore: finanziario e geopolitico. All’interesse delle due maggiori società mercato-europee – la francese Euronext e Deutsche Boerse – si è affiancata un’offerta da parte del Six di Zurigo, una piazza formalmente non Ue come oggi il London Stock Exchange (che ha dovuto mettere in vendita Piazza Affari dopo Brexit), ma comunque radicata nello spazio comunitario avendo appena acquisito la spagnola Bme.
Il governo – anzi, il Mef di Roberto Gualtieri – su questo dossier sembra avere idee delineate, a differenza del buio nebbioso che circonda molti altri fronti di politica economica. Le premesse politiche generali sono due: la Borsa di Milano deve tornare a essere “italiana” (più di quanto lo sia stata nel ventennio dominato dalla City londinese) e “statale”, almeno in parte.
Il primo obiettivo dovrebbe coincidere con l’ennesimo tentativo di rilanciare la quotazione di 1.000-2.000 medie aziende del “quarto capitalismo” italiano (dal tessile-fashion ai comparti più tecnologici della manifattura), a maggior ragione ora che quasi un trilione e mezzo di euro di risparmio delle famiglie sono congelati in liquidità bancaria, mentre l’industria italiana sta affrontando tutti i rischi e i problemi di un lungo post-Covid. Ancora: nessuno ha dimenticato l’expertise che la Borsa Italiana ha creato e accumulato nella negoziazione dei bond governativi con Mts. Una presenza sul mercato che si annuncia strategica allorché si profilano le grandi emissioni di titoli di finanziamento del Recovery Fund, di fatto i primi “Eurobond”.
Il secondo obiettivo – connesso con il primo – guarda alla tradizione storica di tutte le Borse italiane: gestite dalle Camere di commercio, in chiave di “servizio pubblico” (in Italia ed Europa lo è stato in parallelo, a lungo, anche il credito). E’ una visione che può sembrare – e in parte è – originata da nuove spinte neo-stataliste e quindi anti-capitaliste. Non per questo sembra infondata la logica del governo. La privatizzazione della Borsa Italiana (1998) e la vendita a Lse da parte delle grandi banche italiane azioniste (2007) non hanno dato i risultati sperati: non si è tradotto, nell’immediato, in un affare finanziario per i venditori italiani, mentre il conferimento del listino italiano a una piattaforma focalizzata sulla propria centralità globale e sulla propria redditività non ha aggiunto alcun valore economico ampio alla piazza finanziaria italiana (anzi ne ha probabilmente sottratto).
L’ingresso della Cassa depositi e prestiti nel ricollocamento proprietario di Borsa Italiana appare quindi non privo di senso, anzi: al pari dell’ipotesi di intervento nella partnership con Tim sulla gestione della nuova rete digitale nazionale, il piano Borsa Italiana si preannuncia un banco di prova di primo interesse strategico nella nuova stagione di Ricostruzione.
Il Mef, d’altronde, sembra già orientato anche nel merito alla proposta di Euronext, la quale sarebbe già stata sviluppata in termini operativi. Premesso che un governo in carica assume le decisioni politiche che ritiene migliori nell’interesse del Paese – sotto la costante sorveglianza del Parlamento -, la presenza di una pluralità di interessamenti europei meriterebbe più di un minimo d’attenzione. La raccomandano anche voci esperte come quelle di commentatori del Sussidiario.net come Carlo Pelanda e Giulio Sapelli. Quella di ripensare il ruolo della Borsa Italiana nell’interesse dell’Azienda-Italia è un’opportunità che – in condizioni non eccezionali – non si sarebbe neppure presentata. Ora tutto il governo può fare, salvo che sprecarla. Con la Cdp a bordo (senza escludere la presenza di altri investitori italiani), la Borsa italiana può scegliere un partner francese, tedesco o svizzero. Purché ridiventi “Borsa italiana”.