Tra un paio di mesi saranno passati 50 anni dalla strage di Piazza Fontana e dalla morte di Pinelli in Questura a Milano il 15 dicembre 1969. Una delle iniziative sarà quella delle figlie e della vedova di Pinelli, alla quale (questa la notizia dei giorni scorsi che mi interessa commentare) il Circolo Anarchico Ponte della Ghisolfa (quello di Pinelli, per chi non lo sapesse) ha deciso di non aderire.



Le ragioni sono spiegate una lunga “Lettera aperta alle realtà anarchiche e libertarie”. Se ne parlo è perché questa lettera è illuminante in alcuni suoi passaggi. Lascio ad altri se vorranno una discussione su quei tragici fatti e la catena di sangue che ne è scaturita. A me interessa invece un passaggio della lettera perché credo possa aiutarci a fare una riflessione più generale su come nel nostro paese si faccia ancora, dopo mezzo secolo o quasi, tanta fatica ad avere una memoria condivisa sugli anni di piombo, sulla strategia della tensione, su molti episodi degli anni Settanta.



Scrivono gli autori della lettera: “In una fase iniziale abbiamo provato ad aggiungere contenuti in questa iniziativa che appare sempre di più come un contenitore vuoto, cui hanno aderito senza suscitare imbarazzo, ad esempio, soggetti vicini a Forza Italia (Fondazione Gaber) o che non disdegnano rapporti con l’estrema destra (Manlio Milani), – ma non siete antifascisti? e avete a che fare con questa gente? – ma non è stato possibile”. I due esempi portanti ai miei occhi sono davvero inquietanti. La Fondazione Gaber sarebbe “vicina a Forza Italia”? E perché? Immagino perché la vedova Gaber, che è nel Cda della Fondazione, è stata una parlamentare di quel partito fino a 6 anni fa: non si rendono conto che ragionano esattamente come coloro che in quegli anni dicevano che siccome gli anarchici mettevano bombe, certamente la bomba della banca era una bomba anarchica?

Ma la parte che fa davvero rabbrividire è l’altra: Manlio Milani che non disdegnerebbe rapporti con l’estrema destra… Ma lo sanno costoro chi è Manlio Milani? Cosa l’estrema destra – quella stragista, appunto – ha fatto a quell’uomo? Manlio Milani a Brescia, in Piazza della Loggia, ha perso la moglie Livia. “Vidi il volto di Livia sparire nel fumo di uno scoppio terribile. Quando ho capito mi sono messo a cercarla, in mezzo ai corpi martoriati. L’ho trovata, le ho sollevato la testa, non mi vedeva, non mi parlava”. Una foto riprende quell’istante. Da cosa nasce un’accusa tanto assurda? Nel 2011 Manlio Milani decide di partecipare ad un convegno di Casa Pound a Roncadelle, perché se presiedi una associazione di famigliari di vittime di una strage e ti invitano a parlare di quella strage tu ci vai, anche se a farlo è Casa Pound… L’allora sindaco di Bresso, Fortunato Zinni, sopravvissuto proprio alla strage di Piazza Fontana, scrisse parole di fuoco contro chi allora si scagliò contro Milani. Parole che evidentemente non sono bastate.

Ma il punto “politico” è nella conclusione di quella risposta di Zinni: “La verità va ricercata anche contestando a quanti ancora oggi professano quelle folli ideologie le loro responsabilità politiche, storiche, giudiziarie e morali”. Fino a quando questa semplice constatazione non sarà patrimonio comune non andremo da nessuna parte…

La cosa che mi inquieta è che a distanza di così tanti anni ci possa essere qualcuno che non capisca come una memoria condivisa su quegli anni non può che passare da atti come quello di Milani, come la scelta delle figlie di Pinelli di ricordare il padre in modo non canonico. Per dire che non dimentichiamo quello che è successo cinquanta anni fa. Per dire che non vogliamo che si ripeta mai più. Per dire che solo la nostra memoria può rendere migliore la nostra democrazia. Per dirlo con la musica. E con il sorriso.

Tradizionalmente si è sempre detto (lo leggo anche tra le righe di quella lettera degli anarchici) che la mancanza di memoria condivisa sia una conseguenza della mancata luce sui fatti. Mi sono invece convinto che è esattamente il contrario, l’assunto va ribaltato: la mancanza di una memoria condivisa è parte delle cause che hanno portato a non avere una verità giudiziaria o di averla con molto colpevole ritardo. Ovviamente non sto negando depistaggi e interessi internazionali, ma se a chiedere verità non fossero stati solo i parenti delle vittime, alcuni magistrati, ma un popolo intero, unito, le coperture non avrebbero resistito così a lungo. Se non c’è memoria condivisa, non può esserci verità. Hanno ragione i promotori della catena musicale: la nostra memoria può rendere migliore la nostra democrazia.

Oggi ci separano dalla strage del 12 dicembre più o meno gli stessi anni che ci separavano dalla Resistenza quando io mi stavo diplomando e mi rendo conto che sul terrorismo e la strategia della tensione si dicono le stesse cose, le stesse frasi di allora… siamo ancora qui a ripetere gli stessi errori, la stessa incomunicabilità. Oggi la Resistenza, le ragioni del conflitto bellico e della sua fine, non sono più oggetto di scontro, ma non perché siano stati consegnati alla memoria condivisa, bensì perché sono stati rimossi… Anche l’ultima polemica solo dieci anni fa ci avrebbe tenuti impegnati per settimane, mesi: sarebbero stati scritti libri. Mi riferisco a quella sulla risoluzione del Parlamento europeo: solo in Italia, solo “da sinistra” (avete forse letto dichiarazioni indignate degli eredi del Msi o di Forza Nuova per essere stati accostati allo stalinismo?) si sono levate le proteste. Anche qui nessuna memoria condivisa, solo una rimozione collettiva di cosa è stato il Patto Molotov-Ribbentrop, forse perfino di cosa è stato lo stalinismo. Del fatto che “quella che per la metà occidentale dell’Europa è stata una liberazione, per la metà orientale è stato l’inizio di una lunga servitù”.

Temo che lo stesso rischio lo corriamo per i cosiddetti anni di piombo. Passeremo da non condividere una memoria ad archiviare come se nulla fosse successo. Moriranno i testimoni, i protagonisti e nulla resterà. E perché? Perché nessuno accetta di leggere un barlume di verità nella verità dell’altro… Si preferisce nessuna verità ad una verità che non corrisponda alla lettura ideologica che ne abbiamo dato in gioventù o che ci hanno “insegnato” i nostri padri. Siamo pronti a tacciare una Fondazione intitolata ad un grande artista di vicinanza ad una forza politica, perfino ad accusare una vittima dello stragismo di frequentazioni con chi ha ucciso la propria moglie, piuttosto che mettere in discussione la lettura ideologica di quegli anni. Il cattivo del film cambia (i fascisti, lo Stato) ma l’incomunicabilità è la stessa. Pure adesso che la guerra è finita.

Piuttosto che mettere da parte la propria ansia di distinguersi di accreditarsi come unici portatori del Verbo, della Memoria (in questo caso di Pino Pinelli, ma il discorso è più generale) si preferisce starsene chiusi nel proprio circolo (reale) o bolla (virtuale) anche a costo di aspettare che semplicemente non se ne parli più. Così moriremo felici del fatto che nessuno ci ha mai contraddetti. E chi se ne frega se non ci sarà alcun patrimonio condiviso sul quale i nostri figli potranno costruire il loro futuro.

Un’altra piccola tragedia, figlia del nichilismo di questa epoca senza memoria, senza verità, senza interesse generale.